39 anni, la passione per l’alpinismo e il fiato corto per la fibrosi cistica. Eppure Marco si dimentica di essere malato e regala a chi lo incontra un pezzo della sua montagna incantata, quella sulla quale ogni giorno costruisce la sua felicità.
In corridoio mi raggiunge la voce di Bice: «è arrivato Marco!». E mi domando che faccia avrà l’adulto che da bambino mangiava un kilo di miele alla settimana, storceva il collo davanti alle fette biscottate con il burro e faceva osservare alla nonna preoccupata: «questo bambino è troppo salato e cresce come i gerani quando li tieni dentro d’inverno». «Sai che filano… – mi aveva spiegato Bice. «Allo stesso modo Marco cresceva molto ma non in maniera armonica. Era molto lungo e un po’ patito. Un bambino esile. Aveva sette anni quando diagnosticarono la malattia. Allora iniziarono a spiegarsi alcune cose: mangiava tutto quel miele e detestava il burro perché assorbiva solo gli zuccheri e inconsapevolmente andava a cercare le cose che facevano bene al suo organismo. Inoltre, scoloriva la parte superiore del lenzuolo, dove mettevo dentro il piumino, perché aveva una concentrazione di cloro nel sudore particolarmente elevata [si tratta di uno dei parametri che individuano la fibrosi cistica]».
Varco la soglia della cucina e sta lì, di fronte a me, con gli occhi pieni di cielo e la mano tesa. È alto e slanciato e ha la barba dalla sua. Non sembra affatto malato. So di cosa parleremo e mi sento già abbastanza a disagio senza dovermi chiedere se avrà voglia di rispondere. Marco si muove sciolto, con gesti misurati, da signore. Ha imparato a fare economia di parole. È uno che pensa, perciò quando parla gliene bastano poche.
Esordisco con una premessa: le mie domande saranno quelle dell’uomo della strada, di un profano, insomma. So che la fibrosi cistica è una malattia genetica grave che interessa soprattutto polmoni e pancreas. È degenerativa e le cure attuali ne rallentano solo il decorso, ma non la guariscono. Ho letto anche che la durata media di vita è di 37 anni. So che Marco ne ha 39, è sposato, lavora ed è tra i pazienti più vecchi. Quello che mi piacerebbe conoscere sono le domande che si faceva da bambino, come si sono trasformate durante l’adolescenza e la giovinezza e quali risposte è arrivato a darsi in età adulta.
«Sapevo di mia sorella morta per la stessa malattia», attacca Marco. Parla piano. Con tono gentile. «Per me, l’equazione è sempre stata malattia uguale morte. Mamma ha iniziato molto presto a collaborare con l’Associazione Veneta Mucoviscidosi, quindi in casa c’era materiale informativo. Naturalmente leggevo tutto. La mortalità era sempre scritta e così, a forza di leggerlo, sono diventato malato epistemologico. Sapevo che la malattia portava a una morte rapida e scomoda. Ho sempre avuto l’idea che la mia vita sarebbe stata comunque breve. Amo lo sci alpinismo. Lo uso per farti una metafora. Hai presente gli sciatori inseguiti da una valanga? Ecco, io sto sul fronte della valanga e per ora non mi sono fatto ancora travolgere». Decisamente no, mi dico. E intanto Marco continua: «anche perché quando avevo dieci anni l’aspettativa di vita era di 16. Quando ne compii 16 era cresciuta a 20. Ora ne ho 39 e l’età media è di 37. Penso che la stessa sorte non tocchi a tutti. Mi dico: “sei un sopravvissuto”».
Parla come un libro stampato e davvero ne deve avere letti molti o per lo meno quelli che contano. Cita Diceria dell’untore di Gesualdo Bufalino. «La montagna incantata di Thomas Mann l’hai letto?». «No, – rispondo – era in un’edizione troppo costosa ed è finita che non l’ho mai comprata». Entrambi raccontano la malattia come situazione esistenziale e hanno la stessa forza e la stessa poesia delle parole di Marco. «Il tuo cervello ti dice che stai male e le domande sono semanticamente sempre le stesse ma ontologicamente sempre diverse perché le cose cambiano nelle diverse fasi della vita. Comunque le domande sui massimi sistemi le ho evitate perché credevo di sapere le risposte».
Lo incalzo: «so anche che vi dovete sottoporre a una terapia continua». Sorride. «In trent’anni di cure sono passato dai semplici antibiotici per bocca presi ogni tanto e la fisioterapia giornaliera, agli antibiotici in infusione continua e all’ossigenoterapia notturna alla necessità. In questa fase della mia vita faccio circa tre ore al giorno di fisioterapia respiratoria ed aerosol vari – per lo meno dovrei. Nei momenti di riacutizzazione, poi, il tempo da dedicare alla malattia raddoppia. Penso a una persona sana, allo sforzo che deve fare semplicemente per ricordare di prendere una pastiglia, la sera, per pochi giorni. L’idea di sottomettersi a una regola del tipo cura le è intollerabile. Io prendo tra le 30 e le 40 pastiglie al giorno. La terapia a vita porta via tante energie mentali e ne richiede altrettante per mantenere la lucidità. Più sto male più divento cinico e irriverente».
Non è difficile credergli. Marco è abbastanza diretto da non amare le perifrasi. Chiama ogni cosa con il suo nome e non si fa sconti. Me lo aveva anticipato Bice, la sua mamma. «Se gli dicevano fai così così e così, cascasse l’universo faceva così così e così». Prosegue Marco: «bisogna scenderci a patti con la vita. Avrei voluto essere più alto, avere un fisico più atletico. Superata l’adolescenza te ne fai una ragione e te la metti via».
Conosce a memoria le Dolomiti. Di tutte le cime cita nomi e altezze. Molte le ha pure scalate. Mi mostra le foto che ha scattato: roccia, azzurro e alti pascoli. Mi indica il punto in cui si è fatto il bagno sotto una cascata e quello di un sentiero sfuggito alla sua esperienza. «E questo è un raperonzolo di montagna – dice puntando il dito verso lo schermo. «Cresce solo sulle rocce. L’ho incontrato e gli ho fatto una foto. Vedi? Cresce su un cucchiaio di terra». Senza guardarlo penso alla delicatezza di quelle parole. Intanto mi mostra altre fotografie. «Questo è il lago di Misurina dall’alto. Guardando quell’isola a forma di cuore ho pensato potesse essere di buon auspicio per il mio matrimonio».
Ritorno alle domande sui massimi sistemi del mondo: «dunque capitano anche cose belle: si scalano le montagne, ci s’innamora e ci si sposa. Nonostante la terapia continua ci sono dei momenti in cui riuscite a dimenticare di essere malati?». Silenzio. Marco mi guarda. Sembra perplesso. Un po’ serio un po’ divertito. Passa tutto dietro il suo sguardo perché il viso resta immobile. Poi dice: «io non sono sicuro di pensare a me stesso come a una persona malata». Lo fisso senza punti d’appoggio. Lui lo chiama spirito di sopravvivenza, dimostrandosi lucido una volta di più. Non si può spendere tutto il tempo a meditare sulla morte, l’accidentalità della vita, la precarietà del respiro. Se ne esce di senno. Ma, certo, quando Irene (sua moglie) gli chiede se è felice la sua risposta è sempre la stessa, perché sì, lo è, ma non come vorrebbe. «Perché so di non poterle promettere di più del presente, assicurarle di esserle sempre vicino». Ma chi può?
Mi mostra altri scatti. C’è il lago Barcis e in lontananza anche l’Antelao. Marco insegna: «3264 metri. Un giorno vorrei ritornarci. Molto probabilmente lo farò davvero. Penso di rifarlo soprattutto quando sono in difficoltà a fare le scale di casa e ho bisogno di uno sprone alto quanto le mie difficoltà». È la sua montagna incantata. Senza accorgermene, ne trasporto un poca in città, dove mi attende un’altra montagna incantata, che in questi giorni, la sera, ripongo sul comodino.
Pensavo che avrei raccontato una storia di malattia. Invece mi accorgo di avere scritto una storia di vita. Dentro gli occhi la tenacia di vivere di Marco, che questa volta, ma solo nella mia immaginazione, se ne sta disteso sull’erba faccia al cielo e mi risponde rubando le parole a John Fante: «sto sulla riva dell’acqua e sogno». Sostenere la ricerca, mi dico, è l’unico modo per restituire sogni di vita, anzi, semplicemente sogni. A tutto il resto poi, ci penserà la vita, appunto.