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Rare mutations matter

Dietro il microscopio: Paola Melotti

«Non sono andata via pensando di non tornare! Ero alla ricerca di stimoli utili per il mio percorso e infatti ho trovato un mondo molto ricco con cui interagire, gruppi di scienziati con cui gettare nuovi ponti per fare camminare la ricerca. E infatti è andata proprio così».

Rare mutations matter. Lo dice timidamente chiedendosi se sia lecito prendere in prestito uno slogan antirazzista per rendere chiaro il suo convinto impegno per fare arrivare cure nuove, dritte al difetto di base FC, a tutti malati che ancora ne sono privi. 

In effetti le mutazioni rare contano, eccome: contano perché è proprio della vita di tanti giovani che stiamo parlando; contano perché, se trascurate, rischiano di lasciare in un angolo senza soluzioni almeno il 30% dei malati di fibrosi cistica, in balia di una malattia dalla progressione impietosa.

E così Paola Melotti – specializzata in Genetica Medica e con un dottorato di ricerca in Fisiopatologia Metabolica Congenita, oggi ricercatrice e medico al Centro regionale fibrosi cistica dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona – si è presa a cuore “gli orfani”, i malati FC ancora senza cura. E non da ieri, ma dal 2013, a partire da un incontro che si è rivelato fecondo di stimoli professionali: quello con Jeffrey Beekman, da molti ritenuto il padre degli organoidi, internazionalmente riconosciuto per i suoi studi sui trattamenti personalizzati in fibrosi cistica. 

Nel laboratorio di Patologia Generale a Verona (1992).

Nel laboratorio di Patologia Generale a Verona (1992).

Dottoressa Melotti, com’è iniziata questa storia?

“Dal 2005 lavoravo sulle biopsie intestinali a scopo diagnostico. Vedere che in Olanda, al Medical Center di Utrecht, erano riusciti a ottenere organoidi* utili a raggiungere risultati importanti per il test di nuovi farmaci, mentre noi continuavamo a lavorare sui malati con procedure più complicate e meno efficienti, quello mi ha fatto scattare l’interesse. Così nel 2013 ho contattato J. Beekman e da quel momento tutto è cominciato”.

Qual è il primo vantaggio di avere a disposizione un organoide?

“Per una questione molto pratica, prima di tutto. Immagini la differenza tra il dover ripetere più e più volte la biopsia intestinale su un paziente, attendere come reagiscono le sue cellule alla somministrazione di un composto (già ufficialmente approvato o in sperimentazione), poi quando necessario richiamare la persona per un nuovo prelievo… e dall’altra parte avere un organoide che funziona come un avatar: come avere il malato sempre a disposizione”.

Con Utrecht, una collaborazione che dura?

“Certo. Anche i nostri giovani ricercatori vengono mandati in Olanda per formazione e aggiornamento su questi argomenti”.
Il filone di ricerca a cui sta lavorando con l’aiuto di finanziamenti FFC (progetto in corso 9/2020) fa rizzare le antenne ai tanti malati in attesa di cura.

Ci racconta come funziona la sperimentazione, in modo semplice come se dovesse disegnare uno schema?

“Il percorso è questo: vengono prelevate dal paziente cellule dell’epitelio nasale o della mucosa intestinale, queste ultime utili per lo sviluppo degli organoidi; una volta che i modelli sono pronti, li trattiamo con farmaci già in commercio o sperimentali per misurare l’attività della proteina. Gli organoidi intestinali prodotti da malati FC sono raggrinziti ma, se il composto funziona, si gonfiano come palloncini. Può succedere in meno di un’ora oppure nel giro di uno o più giorni”.

A quel punto che si fa?

“Ripetiamo più volte il saggio, anche con controlli incrociati da parte di altri laboratori. Alla fine del percorso, che sarà standardizzato, saremo in grado di prevedere se quel composto testato funziona davvero per correggere il difetto di base per le specifiche mutazioni di quel paziente. A quel punto si potrà richiedere il farmaco da somministrare al malato per verificare la risposta clinica. Il mio progetto FFC 9/2020 farà proprio così”.

D’accordo, però attualmente in Italia un risultato positivo in laboratorio non è di per sé ancora sufficiente per la prescrizione del farmaco.

“I passaggi successivi non spettano ai laboratori ma alle autorità regolatorie. I ricercatori possono solo produrre evidenze scientifiche, pubblicazioni per ottenere una valutazione a livello internazionale che confermi l’efficacia del loro metodo di studio”.

Mentre in Olanda i test in vitro sono sufficienti per richiedere la prescrizione del farmaco?

“Non ancora. In Olanda è stata richiesta questa autorizzazione per farmaci già in uso clinico. Nel frattempo abbiamo aderito al progetto HIT-CF (www.hitcf.org) con pazienti italiani particolarmente numerosi (sottoposti a test sugli organoidi) che saranno a breve selezionati per la somministrazione di farmaci sperimentali”.

Torniamo in Italia: che succede se nei vostri laboratori un organoide si gonfia nel modo giusto, attivato da un composto ancora in sperimentazione?

“In questo caso, forniamo le basi a gruppi di ricerca, anche industriali, per proseguire la sperimentazione e arrivare ai malati”.

Paola Melotti presso il Centro fibrosi cistica di Verona con il prof. de Jonge (2018)

Secondo la sua esperienza, sarebbe utile che vari laboratori italiani mettessero in comune le loro esperienze per affrontare insieme il problema delle mutazioni attualmente prive di terapia? Questo potrebbe facilitare i passaggi con l’Agenzia Italiana del Farmaco per arrivare alla validazione dei test e quindi alla prescrizione del farmaco.

“Certo, sarebbe molto importante! Già il progetto FFC 9/2020 coinvolge anche altri ricercatori italiani. Inoltre il nostro laboratorio è collegato a gruppi internazionali di ricerca per il confronto, lo scambio di campioni, la verifica dei risultati, in particolare dal 2005 con il prof. Hugo de Jonge dell’ Erasmus Medical Center di Rotterdam, ora partner nel progetto FFC 9/2020. Insomma le collaborazioni sono pane quotidiano. Ma i problemi nascono dopo: quando un farmaco deve essere approvato per le mutazioni rare del singolo paziente e quando va rimborsato dal servizio sanitario”.

Lei si divide tra ricerca e corsia: pro e contro di questo mix?

“Il contro è che è complicato: soprattutto in Italia è così difficile conquistare tempo per la ricerca. Il pro sta nel fatto che idee, opportunità, motivazioni sarebbero più difficili da far crescere solo in corsia o solo in laboratorio. La spinta che ti danno i pazienti, da cui tutto parte, è insostituibile”.

Paola Melotti alla Thomas Jefferson University, Philadelphia, nel 1994

Paola Melotti alla Thomas Jefferson University, Philadelphia, nel 1994

Se dovesse fare una scelta?

“Non sceglierei”.

Dagli anni ’90 lei ha deciso di formarsi all’estero: Philadelphia, Baltimora, Rotterdam, Utrecht. Un bel percorso. Dal 1995 è impegnata a Verona al Centro regionale FC. Sinceramente, come mai questo cambio di rotta?

“Non sono andata via pensando di non tornare! Ero alla ricerca di stimoli utili per il mio percorso e infatti ho trovato un mondo molto ricco con cui interagire, gruppi di scienziati con cui gettare nuovi ponti per fare camminare la ricerca. E infatti è andata proprio così”.

 

 

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* Organoidi intestinali: sono generati in laboratorio dalle cellule staminali presenti nell’epitelio rettale. Queste cellule vengono prelevate attraverso minibiopsia; una volta prodotti, si conservano a -180°C per moltissimi anni e possono essere utilizzati più volte per saggi di funzionamento di CFTR sotto effetto dei farmaci.

Cellule dell’epitelio nasale: vengono prelevate attraverso brushing (spazzolamento della cavità nasale). Solitamente sono utilizzate entro breve periodo; in particolari condizioni di coltura  possono essere congelate e quindi usate a distanza di tempo.

 

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