«Sta cercando di portarmi via tutto, ma per riuscirci deve ammazzarmi – dice Giulia col timbro della sfida nella voce. La fibrosi cistica ti toglie qualcosa ogni giorno. Si è presa la mia capacità di respirare, di risalire in superficie, di muovermi. Mi ha tolto l’orgoglio testardo; l’indipendenza, che mi sembrava vitale. Con la libertà a volte mi sembra mi spogli anche della mia dignità, ma la voglia di vivere e il sorriso quelli non potrà portarseli via».
Giulia vive nell’entroterra di Genova con Paolo, che ha quattro anni più di lei, e le loro due bambine, Lisa e Alice, fisicamente e caratterialmente uguali una alla mamma l’altra al papà. «Sono molto sveglie, vivaci ma brave. Hanno una sensibilità particolare. Non mi vedono come una persona malata. Per loro sono la mamma. Sanno tutto. Sono sempre venute a trovarmi in ospedale. Giocano col fonendoscopio, col palo delle flebo. Scelgono dove faccio l’insulina. Quando ho un attacco di tosse mi portano l’acqua. Non è sempre facile, perché fanno anche domande scomode, come tutti i bambini, ma cerchiamo di dare risposte vere». Come quando chiedono: “mamma, ma quando ti avranno messo i pezzi nuovi, allora sarai libera e potrai correre?”; “sì, amore, correremo insieme nel vento”. «Non bisogna avere paura di dire la verità ai bambini, capiscono l’essenza delle cose molto più di noi grandi» dice Giulia, e aggiunge: «penso a me come Giulia. Poi c’è la fibrosi cistica, che con gli anni mi ha invaso la vita e mi ha tolto un sacco di libertà, ma stringo i denti e cerco di essere una mamma e una moglie normale. Non contano l’aria che manca, la fatica, il passo lento, le perplessità. Qualcosa sarà».
Aveva 22 anni quando si è sposata. Ha lavorato finché non è rimasta incinta. «Avendo già il lavoro di curarmi, ho deciso di fare la mamma a tempo pieno», commenta. «Nei miei progetti di ragazza non era previsto di sposarmi così giovane. Dopo il liceo classico mi sono iscritta al corso di psicologia, all’università di Torino. Avevo 19 anni e Paolo 23 quando ci siamo conosciuti e mi ha travolto la vita. Dopo due anni avevamo già capito che dovevamo sposarci presto, contro tutti, che ci dicevano fossimo matti. Se conoscessi Paolo, capiresti. È il sole. Una persona straordinaria. Un uomo speciale. Non si poteva non sposare. Quando entra in una stanza la illumina. È divertente. Ridiamo come dei matti, ancora, dopo dieci anni, e pensiamo che ci saremmo potuti sposare anche prima – aggiunge Giulia, piena di entusiasmo. Quando l’ho conosciuto stavo abbastanza bene. Facevo circa un ricovero l’anno. Della fibrosi cistica gliene ho raccontato molto presto, perché Paolo è diventato subito una parte fondamentale della mia vita, ma non è che ci si pensasse tanto alla malattia. L’ho tenuta da parte tutta la vita. Quasi nessuna delle persone che conoscevo sapevano cosa avessi. Col passare dei mesi ha capito che cosa volesse dire e ha scelto di restare, sapendo a cosa andava incontro. Si è preso un bel carico. Mentre i miei si sono ritrovati con una figlia FC, Paolo ha scelto me, con tutto quello che voleva dire».
A 25 anni sono arrivate le due figlie. «Mi hanno dato la gioia più grande e sono cambiate ancora una volta le priorità – racconta Giulia. Amandoci così tanto quell’amore doveva sfociare in qualcosa. Per noi è diventato il desiderio di allargare la famiglia. Sapevo che prima avessi fatto e meglio sarebbe stato, per i miei problemi di salute. La gravidanza è stata molto difficile. Sono stata quasi sempre in ospedale. Per due mesi sono stata sdraiata a guardare il soffitto, senza potermi muovere. Un colpo di tosse poteva scatenare le contrazioni. Sono nate settimine». Un giorno alla volta sono riusciti a superare le difficoltà. “Cosa ho fatto? È la cosa giusta? Ora cosa succederà?”, si chiedeva Giulia, che dice: «nessuno sa cosa riserva il destino. Faccio il possibile per garantire un futuro alle mie bambine. Siamo sempre stati abbastanza incoscienti. Ho scelto di vivere al massimo anziché sopravvivere. Io sono qui ora e cerco di esserci il più a lungo possibile. Siamo una squadra. Abbiamo condiviso tutto e un passo alla volta affrontiamo quello che viene. I miei genitori, mamma soprattutto, mi hanno cresciuta insieme al mio fratello maggiore come una bambina normale. Non mi hanno mai tenuta in una teca o più di tanto al riparo. Ho fatto come tutti gli altri, anche se mi ci voleva più fatica. Ovviamente, ho anch’io i miei momenti di sconforto e di paura, ma non posso perdere tempo a piangermi addosso. Ho troppe cose da fare e da vivere».
Ha evitato l’argomento fibrosi cistica finché ha potuto. Niente amicizie con altri pazienti, né impegni con associazioni dedicate. «Non era perché mi vergognassi che non ne parlavo – spiega Giulia. La verità è che temevo di mostrarmi fragile. Odio la compassione. Ho una vita meravigliosa. Forse rischiando, ma ho fatto quello che volevo: il giro del Québec in moto slitta; il viaggio in Nuova Zelanda; quello in Turchia con gli zaini e le bimbe di 15 mesi in spalla. Neanche ora che sono attaccata all’ossigeno 24 ore su 24 e sono in lista di trapianto penso a me come malata. Ci adattiamo molto. Prima mi pareva inaccettabile portare l’ossigeno. Mettere le cannule mi esponeva come persona malata ed è stata dura da mandare giù. Ora che vivo in ossigeno dico che va benino. In un anno e mezzo è cambiata molto la mia prospettiva. Arriva un momento in cui non la puoi più prendere a gomitate la fibrosi cistica. Il trapianto fa paura, ti mostrano la situazione nuda e cruda. Segna la tua vita, anche se non finisce con lui la malattia. Sentire le testimonianze di chi l’aveva affrontato mi ha aiutato tanto ad accettarlo. Quando me l’hanno proposto è stato un pugno in faccia».
Col tempo Giulia ha iniziato a pensare di potere fare qualcosa. «Quando dico che ho la fibrosi cistica vedo lo smarrimento più totale. Non lo sa nessuno cosa sia. Però, da quando ho iniziato a parlarne, ho imparato due cose: che le persone spesso reagiscono meglio di quello che pensiamo quando condividiamo le nostre fragilità e che quella che pensavo essere una mia debolezza è la cosa che in realtà mi ha reso molto più forte. Mamma dice che 30 anni fa non sapevano se avrei potuto superare i cinque anni. Io nella ricerca ci credo eccome, per questo partecipo attivamente alle campagne a sostegno della Fondazione Ricerca FC. Sono stata all’Istituto Italiano di Tecnologia con Sandra Garau. È stata un’emozione grande. L’idea che potrebbe davvero arrivare un farmaco che aiuti le persone a non affrontare quello che sto vivendo è appassionante. La ricerca è tutto. Sono in terapia con Orkambi. Io e Paolo avevamo sperato tantissimo in questo farmaco. Mi ha regalato del tempo, ma non ha portato grandi risultati».
Al confine con la Francia, a Bersezio, sul colle della Maddalena, c’è una cima. È il monte che Paolo ama, ma Giulia, al momento, non può andare sopra ai 1000 metri né allontanarsi da Milano, perché aspetta la chiamata. «Per me è inarrivabile ora – racconta. Il primo obiettivo della lista di cose da fare post trapianto è andare in cima a questo monte con mio marito e gridare che ce l’abbiamo fatta a fare anche questo pezzo di montagna insieme. Voglio correre dietro alle bimbe, non sentirmi male quando rido, fare una vita libera. Intanto la nostra montagna con scritto un passo alla volta me la sono tatuata. È l’ultimo tatuaggio, perché dopo il trapianto saranno aboliti. Ho anche i nomi delle bambine, just breathe, l’araba fenice, un 8 (il numero mio e di Paolo), we don’t go down without a fight, una rosa, il primo fatto a 16 anni con ira dei miei.
A lungo mi sono chiesta perché è successo a me. Da quando ho conosciuto Paolo mi sono chiesta cosa ho fatto per meritarmi tutto questo bello. Quindi va bene così. Ho al fianco l’uomo che amo e che tanti anni fa ha scelto di lottare con me, nonostante la consapevolezza che non sarebbe stato facile né indolore. Insieme siamo qualcosa che va oltre qualunque malattia e qualunque ostacolo. Le nostre bambine sono la mia motivazione più forte, perché voglio e devo esserci accanto a loro il più a lungo possibile. Facciamo un passo alla volta, qui e ora».