Lucia è mamma di Giovanni, 11 anni, e Caterina, 9 anni. Caterina ha la fibrosi cistica, in una forma severa, e Giovanni ha dovuto abituarsi sin da piccolissimo all’assenza periodica della mamma. In questa intervista Lucia ha condiviso la narrazione intima di una gestione familiare complessa, sia da un punto di vista fisico, perché la stanchezza è tanta, che mentale, perché le emozioni provate nella quotidianità sono intense e le energie dispiegate per accoglierle, comprenderle e gestirle sembrano non bastare mai.
Partiamo dal giorno in cui avete ricevuto la diagnosi di Caterina.
Faccio non poca fatica a tornare con la mente ai primissimi mesi di vita di Caterina. Sono stati confusi e disperati. La diagnosi definitiva aveva tardato ad arrivare perché i medici genetisti non riuscivano a rintracciare la mutazione più rara, la mia. Io non conoscevo la fibrosi cistica e allora chiamai mio padre, che faceva il giornalista, sconsolata, confusa, per comunicargli la notizia. Lui rispose: “Cazzo, ma quella è una malattia di merda”. Lo posso dire? Lo puoi scrivere? Spero di sì, perché questa è la definizione esatta di questa malattia.
Per un periodo sono sprofondata nella disperazione più totale e ricordo che mi nascondevo in bagno a piangere, per non farmi vedere da Giovanni che all’epoca aveva appena 2 anni. Mio marito, la colonna portante della nostra famiglia, invece, ha reagito mettendo in campo tutto il suo ottimismo e la sua forza. Lo ringrazio tutt’oggi per l’energia di quei giorni.
Come cambia la vita con un bambino con la fibrosi cistica?
Caterina è nata in marzo e a giugno ha iniziato con la fisioterapia respiratoria. Da subito è una vita cadenzata da farmaci, terapie, visite di controllo, ricoveri. Oggi, per essere in classe alle 8, devo svegliarla alle 5:45, per avere il tempo di fare l’aerosol, la pep mask, colazione con i dovuti accorgimenti… Non l’ho mai messa sotto una cupola di vetro, ma ho sempre fatto molta attenzione a non portarla in luoghi affollati o al chiuso, soprattutto se frequentati da molti bambini, e le ho chiesto di indossare sempre la mascherina.
Se posso le faccio fare tutto, come giocare a basket, nonostante la tosse, la stanchezza, i cicli di antibiotici. Domenica scorsa ha voluto disputare una partita nonostante la notte precedente non avesse dormito perché “se poi mi ricoverano non posso più giocare per tanto”. La ammiro molto per la sua tenacia.
Come sta ora Caterina?
Fino ai 6 anni non ci sono state manifestazioni della malattia eccessivamente preoccupanti. Poi ha iniziato a peggiorare, sviluppando anche una forma allergica grave alle spore della muffa, con conseguente reazione asmatica, e un esordio di diabete. Negli ultimi 3 anni i ricoveri sono diventati molto frequenti. Il cortisone, che è costretta ad assumere per gestire le reazioni allergiche, alza la glicemia e la rende immunodepressa: la situazione è molto delicata. Le mutazioni del gene CFTR che possiede non la fanno rientrare, al momento, in nessuna prospettiva farmacologica.
Non possiamo fare programmi, come pianificare una vacanza o un’uscita con gli amici, al momento. L’estate, il periodo dell’anno preferito di ogni bambino, per Cate diventa un problema perché c’è molta umidità e fa troppo caldo. Nel periodo invernale i virus influenzali sono una concreta minaccia. Io vivo pensando solo alla giornata che mi aspetta: un momento alla volta, un giorno alla volta.
E Giovanni?
L’ultimo periodo, gli ultimi ricoveri, sono stati molto difficili anche per lui. Se Caterina viene ricoverata d’urgenza io non ho nemmeno il tempo di salutarlo e lui, che a 11 anni è ancora piccolo, si trova a dover stare intere settimane senza la mamma. Ho aperto un dialogo molto proficuo con le insegnanti e la psicologa della scuola, spiegando loro la nostra situazione familiare. Una delle sue maestre mi ha detto che ultimamente è molto solitario ed è come “se gli si fosse spenta la luce negli occhi”. Ho sentito un tuffo al cuore nel momento in cui me l’ha raccontato.
Nella quotidianità, si rischia di dedicare più attenzioni a un figlio piuttosto che all’altro?
Con un bambino con la fibrosi cistica è inevitabile. Per quanto ci si sforzi di essere presenti con entrambi, attenti con entrambi, affettuosi con entrambi, ci sono dei momenti, come i ricoveri, in cui non posso dividermi. Giovanni sta entrando nella pre-adolescenza e so, grazie anche all’aiuto della psicologa della scuola, che questo periodo si caratterizza anche per lo sviluppo di un pensiero rivolto al futuro, e non più incentrato solamente sul presente, tipico invece dell’infanzia. Giovanni inizia a proiettarsi nel futuro, a immaginarsi la vita, e qualche settimana fa, al culmine di quest’ultimo periodo di fatica, con una sincerità e una profondità disarmanti, Giovanni mi ha detto: “Mamma, io non sono pronto a fare una vita così”. Mi ha spiazzato: come posso biasimarlo.
Come avete scelto di affrontare questa fase di Giovanni?
Abbiamo deciso di affidarci all’aiuto di professionisti. La psicologa della scuola di Giovanni ci ha suggerito di regalargli un diario in cui poter scrivere tutti i suoi pensieri: vedo che lo usa spesso per raccogliere le sue riflessioni, credo. Io ovviamente rispetto la sua privacy e non leggo ciò che scrive, ma penso che stia funzionando. Con l’aiuto della mia psicologa, invece, sono giunta alla decisione che il prossimo periodo di ricovero di Cate ce lo divideremo io e mio marito perché anche Giovanni ha bisogno di me, a casa.
Che rapporto hanno Caterina e Giovanni?
Un bel rapporto tra fratello e sorella: sono complici. Giovanni è molto protettivo nei confronti di Caterina e si preoccupa per lei quando sta male. Lo scorso anno Giovanni ha fatto un corso dedicato ai fratelli di bambini disabili, li chiamano “siblings”: una parola così dolce per descrivere un mondo davvero complicato. Durante le mattinate di corso ci sono stati momenti di confronto tra di loro molto toccanti ed è stato utile che le educatrici abbiano spiegato ai bambini che anche le emozioni negative vanno accolte, al pari di quelle positive: va bene essere arrabbiati, va bene provare angoscia o tristezza per il fratello o la sorella che sta male.
Giovanni, un giorno, mi ha detto: “Questi bambini hanno fratelli con i quali non possono neanche giocare. Io sono fortunato perché con Cate posso parlare e giocare”. Da questi momenti prendo la forza che mi serve per andare avanti con il sorriso.
Ora manca solo parlare di suo marito.
L’ho già detto: mio marito è una roccia. Ha avuto una vita per certi aspetti molto dura e le sue spalle sono forti, così forti da poter sostenere anche me nei momenti in cui le mie gambe e il mio umore sembrano cedere. Ho fatto e sto facendo molta fatica a incassare la diagnosi di diabete di Cate. Mio marito l’ha capito e ha rallentato, rimanendo un po’ di più con noi, lavorando da casa il più possibile. E anche in questa circostanza ha visto il risvolto positivo. Mi ha detto: “Meglio adesso piuttosto che in adolescenza, così è una bambina e riusciamo ad aiutarla. In adolescenza sarebbe stato più difficile”. E forse ha ragione.
Mi scappa un sorriso se penso che la psicologa che ci accolse al primo ricovero di Caterina al Centro FC di Milano, quando lei aveva solo tre mesi, ci disse perentoria: “Sappiate che il 50% delle coppie con diagnosi di fibrosi cistica del figlio… non regge. Scegliete voi, da subito, da che parte stare”. La scelta è stata stare insieme da vent’anni.
Sui suoi canali social pubblica molti momenti della vostra famiglia: foto, video… La aiuta condividere?
I social, se usati nella maniera corretta, sono una risorsa preziosa. Creano spazio per il confronto, per l’aiuto. Qualche tempo fa, dopo che avevo raccontato sui social della diagnosi di diabete e della mia grande preoccupazione a riguardo, mi ha contattato una mamma nella mia stessa situazione. Mi ha rincuorato sapere che non ero sola, che altri ci stavano passando e che anche per loro è stato angosciante.
Sui social condivido di tutto: Giovanni e Cate che cantano, Caterina che gioca a basket, i balletti e le scenette passatempo che facciamo io e Cate durante i suoi ricoveri, Giovanni che mi chiede “Non vai di nuovo in ospedale, vero mamma?”. E talvolta arrivano anche consigli non richiesti che mi destabilizzano, ma per fortuna sono pochi.
Come reagite a questi commenti?
Per fortuna sia io che mio marito nutriamo piena fiducia nei confronti dei medici che hanno in cura Cate: abbiamo scelto di non cercare informazioni e consigli altrove, di non mettere in dubbio le loro prescrizioni.
Avete fiducia nella medicina e sostenete la ricerca. Come avete conosciuto FFC Ricerca?
Vidi un’intervista di Angelica (una ragazza con la fibrosi cistica, che è stata testimonial di Fondazione, e che è mancata nel 2018, ndr) su Rai Tre. Andai sul sito per scoprire di più su Fondazione e contattai Francesca Farma, responsabile della Delegazione di Tradate Gallarate. Iniziai il mio rapporto con Fondazione così: ordinando e distribuendo ciclamini durante la Campagna Nazionale, tramite Francesca. Con il passare degli anni, attorno a noi si è creata una schiera d’amore e di solidarietà: sono state le mamme dei compagni di scuola e degli amici di Giovanni e Caterina a chiedermi come potevano assicurare il loro aiuto. Francesca è diventata come una sorella maggiore e il mio impegno a trovare “Una cura per tutti” si è intensificato.
Nonostante l’ultimo periodo sia stato intensissimo, ho partecipato anche alla Campagna Nazionale dello scorso ottobre, presidiando ogni weekend i banchetti d’offerta del ciclamino allestiti da Tecnomat (main sponsor dell’ultima Campagna Nazionale, ndr). Le mutazioni di Caterina non rientrano ancora in nessuna sperimentazione: come faccio a tirarmi indietro? Come faccio a non darmi da fare? Ma mi conosco, mi impegnerei anche se Cate potesse assumere Kaftrio, per non lasciare indietro nessuno.
Cosa pensa della campagna “1 su 30 e non lo sai”, voluta da Fondazione per sensibilizzare la popolazione sul test del portatore sano in FC?
Non posso far altro che dare il mio supporto a questa campagna. Se io e mio marito avessimo saputo del test del portatore avremmo probabilmente maturato scelte diverse. Vado oltre, aggiungendo che, al momento della diagnosi, viene detto ai genitori che è “opportuno avvisare i familiari”. Dal mio punto di vista è scorretto lasciare l’onere di avvisare tutti i parenti alle mamme e ai papà che in quel momento sono travolti da un turbine di emozioni di difficile gestione. Andrebbe attivato un protocollo d’ufficio che fa partire una comunicazione verso tutti i potenziali interessati.