Mi accomodo sul grande divano di un’ampia sala affacciata sul mare, piena di libri, quadri e arredi di gusto antiquario. Il contrasto degli interni con la giornata assolata è già il preludio di un racconto a luci e ombre, su cui luccica per tutto il tempo una vela, bianca. Gabriella siede con lo sguardo penetrante come una sfinge. È una donna colta, intensa, con una voce bassa e rotonda, che vivifica i ricordi. «È stato un quinquennio bellissimo e felice della mia esperienza didattica quello che ha portato nella nostra classe Matteo Patrone. La sua presenza ci ha stimolato al massimo. È stato una spinta e ha rappresentato una componente della soddisfazione di quella stagione – racconta. Trent’anni fa, quando iniziai il ciclo della scuola elementare con Matteo, non conoscevo l’esistenza della fibrosi cistica, ma anche ora mi capita spesso di trovare persone che non l’hanno mai sentita nominare. Io e la collega Alberta facevamo il tempo pieno. Ci contattò una coppia, che con una comunicazione telefonica molto vaga ci invitava ad andarla a trovare una domenica pomeriggio. Ci spiegarono cos’era la malattia e la loro situazione di genitori. Matteo doveva andare a scuola: l’ingresso nella comunità scolastica avveniva solo in prima elementare. Restammo stupite. Era un dovere e un piacere accogliere tutti i bambini. Documentandoci, ci si rese conto che era una cosa seria. Non si trattava dell’ansia dei genitori e basta. Ci chiesero di seguire il figlio stando attente all’alimentazione e controllando la somministrazione dei farmaci. Incontrarono la nostra disponibilità, ma avrebbero dovuto guidarci. Sapevamo che oltre all’aspetto medicale dovevamo curare anche l’inserimento di questo bambino particolare. Non aveva fatto un solo giorno di scuola materna, quindi aveva esperienze limitate e aspettative enormi. Voleva stare con gli altri. Tra noi si creò subito un feeling e un legame. Matteo era una bella meletta con la pettinatura a caschetto; veniva a scuola fiducioso, desideroso di apprendere. Eravamo sempre tese, preoccupate che non si stancasse».
Nessuno doveva sapere della malattia. «I genitori volevano che Matteo fosse il più sereno possibile. Ogni manovra che facevamo con lui, per esempio l’aerosol o le battiture, doveva sembrare normale. Ne abbiamo rispettato il desiderio. Ci era stato anche chiesto di curare particolarmente un aspetto: detergerlo se fosse stato sudato. E ci avevano dotato di un asciugacapelli. Alla fine della ricreazione tutti i bambini si asciugavano col fohn – sorride Gabriella. Era un alunno eccezionale, con un’intelligenza viva, capitato in una situazione ideale. Io e la mia collega eravamo giovani abbastanza da avere entusiasmo ed esperienza. Ma ci domandavamo sempre se stessimo facendo la cosa giusta. Per certo, il massimo. Quel bambino se lo meritava».
A metà anno della prima elementare Matteo si ammala. «Aveva la febbre, ma non voleva allontanarsi dalla classe. Me lo ricorderò per tutta la vita. Stava aggrappato al banco. Un evento che mi ha dato le misure del piacere che aveva di stare con noi e che ci ha commosso. Per un insegnante è la massima dichiarazione. C’era un gruppo classe eccezionale – prosegue Gabriella. Nacquero spontaneamente delle situazioni per cui i bambini si volevano vedere anche il sabato e la domenica. Facevamo delle scampagnate. Anche i genitori diventarono amici tra loro, ma nessuno seppe mai niente della salute di Matteo. Avere un occhio di riguardo per lui non è stato difficile. Quando me lo consegnarono, i genitori dissero: “il nostro obiettivo è di portarlo fino a 14 anni”».
Contro ogni previsione Matteo cresce. «Con le medie sono iniziati i problemi. Ha cominciato a farsi domande e ha avuto accesso al PC e a internet. Qualche ombra si è insinuata nella sua esistenza – riflette Gabriella. Penso a tutto quello che la madre mi ha riferito, soprattutto della scuola superiore, al male che si portava dentro. Parte della sua vita è stata molto sofferta per la consapevolezza che non gli avrebbe riservato granché. Matteo era un ragazzo intelligente e sensibile. Forse ha patito più nell’anima che nel corpo. Per un periodo aveva anche deciso di non curarsi. Non voleva andare alle visite di controllo, fare fisioterapia, prendere certi farmaci. Faceva resistenza. Finché non è stato più in condizione di opporsi.
Andare in sala rianimazione non è stato facile, per il rapporto affettivo insegnante-alunno che ci univa. Io ero lì, e la mia funzione era quella di alleviare il dolore di Sandra, la madre, e starle vicino, ma non si sa dove arrivare, quando fermarsi, cosa dire. Il fatto che abbia dovuto partecipare ai funerali di Matteo mi dà tanta tristezza». Gabriella abbassa lo sguardo. È come se i pensieri addensassero la penombra e incendiassero l’aria intorno. Fisso l’orizzonte. Lontano, sempre quella vela accesa di luce.
Cosa fare per evitare una reazione rabbiosa alla malattia, la ribellione e l’isolamento? «Di fronte alla patologia grave con sintomi conclamati è la natura delle persone che decide se verrà negata o meno. La reazione è individuale e molto soggettiva. Credo si debba discutere, ragionare, riuscire, con le modalità più diverse, a fare accettare la diversità, per far sì che non condizioni il gruppo sociale intorno al bambino. Che sia grasso, claudicante, con le orecchie a sventola o con qualsiasi malattia che non si veda all’esterno e si nasconda con più facilità, penso che l’informazione possa essere importante per non vivere la diversità come qualcosa di cui ci si debba vergognare. I bambini non hanno difficoltà ad accogliere se non sono manipolati dagli adulti. Qualunque spiegazione venga data, perché il bambino la chiede o dimostri esigenza di conoscenza, bisogna sempre rispondere la verità. Non sono così difficili le risposte che si devono dare. La difficoltà è trovare le parole giuste per dare le risposte giuste, ricordando che spesso i bambini non ci chiedono tutte le cose che sappiamo. Hanno bisogno di risposte molto più semplici. Bastano pochissime parole. Se non restano soddisfatti faranno ulteriori domande. L’importante è verificare se quello che è stato spiegato è stato compreso con controdomande di verifica».
Occorre trovare le forme per riuscire a conoscere tutti il più possibile la malattia. «Bisogna parlarne, aiutarne l’accettazione – insiste Gabriella. Il supporto psicologico alla famiglia e al paziente ci vuole. E Matteo non l’ha avuto. Purtroppo ci si focalizza sulle cure e le attenzioni che la malattia impone dal punto di vista medico e ci si dimentica di tutti gli altri problemi. Se ne risolvono molti trattando questi ragazzi come tutti. È il modo migliore per dire tu sei come gli altri. Non hai un trattamento privilegiato, perché non te lo dobbiamo. Non si possono togliere tutte le spine delle rose di un giardino perché un bambino è cieco, ma c’è da lavorare molto, al di là della fibrosi cistica, per la formazione dei genitori. Perché ci si diventa. Non c’è una scuola in cui si impari ad esserlo. Bisogna avere delle informazioni. L’ignoranza, il non sapere, impediscono di essere liberi. Purtroppo c’è un’ostentazione generale di sicurezza nell’educazione dei bambini, quando bisognerebbe essere attraversati dai dubbi».
Il suono del campanello costringe a tornare al tempo dell’orologio. Sono trascorse quasi tre ore, non per il mare, nel blu immobile di questa giornata senza nuvole. Gabriella conclude: «nella nostra cultura il lutto è difficile. Se pensassimo più spesso che la vita ha un termine e ragionassimo sul fatto che là ci arriviamo tutti, l’accettazione della morte come un fatto naturale ci porterebbe ad agire nel quotidiano con maggiore saggezza. A me piace pensare alla morte come se il corpo non ci fosse più, ma esistesse in quelli che restano qualcosa di chi se n’è andato. Credo sia vero quello che dice Pessoa: La morte è la curva della strada, / morire è solo non essere visto. / Se ascolto, sento i tuoi passi / esistere come io esisto. / La terra è fatta di cielo. / Non ha nido la menzogna. / Mai nessuno s’è smarrito. / Tutto è verità e passaggio».