«Il percorso della scienza è molto dispendioso, sempre tortuoso e ricco di imprevisti. Sono fiducioso: questi mesi aiuteranno tanti a comprendere l’importanza della ricerca.»
Il dott. Fabio Saliu? “È un giovane e brillante Pre-doctoral Fellow che sta lavorando con molto entusiasmo nell’ambito FC”, così lo descrive Nicola Ivan Lorè, suo responsabile diretto presso l’Unità di ricerca Patogeni Batterici Emergenti all’Istituto Scientifico San Raffaele.
Con una borsa di studio assegnatagli da Fondazione, Fabio partecipa al progetto di ricerca 23/2020 Identificazione di nuovi marcatori biologici per la progressione della malattia polmonare indotta da Mycobacterium abscessus in fibrosi cistica.
Tentiamo di decifrare il titolo del progetto, immagini di essere a una cena tra amici e di dover spiegare il suo lavoro.
“Il nostro laboratorio studia i batteri che colonizzano le vie aeree nei pazienti FC, per capire qual è il loro contributo all’infiammazione polmonare. Il nostro scopo è di identificare nuovi marcatori biologici che possano predire la progressione della malattia polmonare indotta da Mycobacterium abscessus in modo da poter giocare d’anticipo sullo sviluppo dei sintomi e dei danni al polmone. In seguito all’infezione infatti, non tutti i pazienti FC sviluppano la malattia polmonare con la stessa gravità e noi cerchiamo di capire il perché. Ottenere queste informazioni potrà essere utile per permettere di prevedere l’esito del processo infettivo e capire quali soggetti andrebbero trattati in modo aggressivo e quali no. Individuare le caratteristiche che determinano la probabilità di un paziente di avere uno sviluppo della malattia polmonare potrà aiutare i clinici a identificare i pazienti più a rischio”.
“È insidioso perché non abbiamo ancora un trattamento efficace: è resistente infatti a quasi tutti gli antibiotici e il tentativo di eradicarlo con cure molto lunghe (in genere combinazione di vari antibiotici) e pesanti può costare al malato effetti collaterali importanti, che ne possono compromettere, in concomitanza con l’infezione polmonare, la qualità di vita. È la ragione per cui FFC ha deciso di dedicare particolare attenzione a un gruppo di batteri, chiamati “Micobatteri non tubercolari” (lontani parenti del micobatterio della tubercolosi) di cui M. abscessus è la specie più frequente in FC. L’obiettivo è da un lato quello di predire e monitorare quanto il batterio incida sulla salute polmonare e generale di un soggetto FC, ma anche quello di individuare strategie innovative di cura con il minimo danno al malato”.
Un progetto di ricerca che studia come migliorare la qualità della vita.
“Ha un obiettivo molto concreto. Quando dico che faccio il ricercatore lo so che vengo immaginato intrappolato nella mia Torre d’Avorio, con i miei vetrini. Nella realtà, io non mi sento isolato: ho ben chiaro il fine ultimo del nostro mestiere, con i risultati del nostro lavoro vogliamo migliorare la quotidianità delle persone”.
“Nostro lavoro”. Il mestiere del ricercatore è dunque di team?
“Certo, sfatiamo un altro mito. Ognuno di noi ha delle attività da svolgere individualmente, ma i momenti di confronto, in cui si trae spunto dal lavoro altrui, sono essenziali. La storia ci insegna che la scienza è fatta di comunicazione e di condivisione continue. Se non ci fosse una data burocratica e amministrativa a decretare la fine di un progetto, questo sarebbe potenzialmente infinito. Tanto più il progetto è valido, tanto più crea spunti per confronti tra colleghi e con altri gruppi di ricerca”.
Come è arrivato al San Raffaele?
“Mi sono laureato in Biologia a Cagliari. Per la magistrale ho scelto di trasferirmi a Milano e mi sono iscritto al corso di Laurea Magistrale in Biotecnologie Mediche Molecolari e Cellulari all’Università Vita-Salute San Raffaele. Finita la Magistrale ho subito cercato un laboratorio e ho trovato un bando pubblicato dal dott. Nicola Lorè. Sono con lui dal 2018”.
Cagliari. Dimmi la verità, ti manca il mare? (Iniziamo così a darci del tu, ndr)
“Eh… Molto! Sono un appassionato di apnea e pesca subacquea. Quando sono arrivato a Milano è stato difficile abituarmi a non vedere il mare, né a destra né a sinistra. Mi guardavo intorno e mi chiedevo: ma dov’è?” (Ride, ndr)
A 29 anni, si potrebbe dire che sei agli inizi. Visto che siamo coetanei, possiamo parlare apertamente: c’è, anche in laboratorio, un po’ di nonnismo?
“Diciamo che è molto forte il concetto della gavetta. Nella mia seppur breve esperienza ritengo di essere stato molto fortunato: ho sempre trovato colleghi senior con una forte vocazione all’insegnamento.
Ciò non toglie che inizialmente si debbano fare attività faticose, fisiche, molto manuali e da un punto di vista scientifico, francamente, poco stimolanti. Ma anche queste risultano nodali”.
Un esempio di queste attività?
“Ho partecipato a un progetto che implicava sperimentazione in vivo, sui topi. Anche il sabato e la domenica andavo in laboratorio per monitorare il loro stato di salute. Tra i vari parametri c’era il peso e così mi svegliavo e andavo a pesarli, uno ad uno. Un’attività un po’ noiosa, eppure è stata fondamentale: il peso era un parametro da monitorare quotidianamente, un dato essenziale per il paper di fine progetto. Sono, in ultima analisi, attività funzionali alla crescita professionale. In questa fase della carriera di un ricercatore viene data la possibilità di affacciarsi al mondo vero del laboratorio, uno spazio temporale e fisico per capire se è davvero la dimensione in cui si vuole vivere e lavorare”.
E tu l’hai capito se vuoi davvero essere un ricercatore?
“Sì, ne sono sicuro. Anche se so che le soddisfazioni professionali arrivano e arriveranno lentamente e a piccole dosi. Dico sempre che la vera virtù che contraddistingue i ricercatori è la pazienza.
Il momento storico in cui stiamo vivendo, mi riferisco alla pandemia di Covid-19, sta dimostrando anche ai non addetti ai lavori che i tempi della ricerca sono lunghi e ineluttabili. Nonostante siano stati messi a disposizione ingenti finanziamenti, si siano chiamati in causa grandi nomi del panorama scientifico internazionale, nonostante le energie di tutto il mondo siano impegnate in tale direzione, e ci siano dunque stati forti acceleramenti, il percorso della scienza è molto dispendioso, sempre tortuoso e ricco di imprevisti. Ma sono fiducioso: questi mesi aiuteranno tanti a comprendere l’importanza della ricerca. Per questo ammiro e sono grato al lavoro di divulgazione scientifica di Fondazione”.
Com’è vista Fondazione da te e dai tuoi colleghi?
“La Fondazione è una realtà molto concreta e presente. Le idee valide, concepite nel rispettivo ambito di ricerca, hanno la possibilità di essere approvate e finanziate rapidamente. Noi ricercatori viviamo FFC come un satellite: una presenza costante, seria. Un riferimento.
Ma c’è un altro aspetto che a me sta molto a cuore. Fondazione unisce il mondo del malato, della sua famiglia e dei suoi affetti, a quello del laboratorio e della ricerca. L’anno scorso ho partecipato a un banchetto d’offerta del ciclamino e ho conosciuto malati, volontari e sostenitori. Per un ricercatore è importante uscire dal laboratorio e conoscere chi vivrà il risultato del proprio lavoro. Mi hanno ringraziato”.
Se le soddisfazioni professionali arrivano dilazionate, forse quelle personali sono più vicine?
“Assolutamente sì, sono queste a darmi la carica. Conoscere chi beneficerà, nel più breve tempo possibile, del mio lavoro, rende più chiaro a me stesso qual è il posto nel mondo che ricopro, qual è il mio contributo alla società. Non so se quest’ultimo sarà un piccolo o, spero, grande tassello nel puzzle della scienza: aspetto il verdetto con la pazienza che ho imparato e, nel frattempo, metto in campo tutto il mio impegno”.