Rita si salva grazie al viaggio verso l’ignoto che il suo papà intraprende alla volta di Bologna, quando lei ha poche settimane. La carica in auto e in cinque ore arriva in ospedale, dove viene operata d’urgenza a causa dell’ileo da meconio. È il 1975 e di fibrosi cistica si sa quasi nulla: a Foggia dove nasce Rita, come quasi ovunque nel resto d’Italia. L’approdo al Centro di cura FC di Verona, segna la svolta. Rita però non accetta la malattia e s’inventa un modo di vivere come se non dovesse rendere conto di nulla a quel gene difettoso. Oggi ha 40 anni, è diventata pediatra, e si racconta per debito di riconoscenza nei confronti di quanti si sono presi cura di lei sino a qui.
Come hai accettato l’intervista?
«Me l’ha chiesto Mastella, la persona che mi ha salvato, mi ha curato, mi ha cresciuto e coccolato. Fino all’età di 25 anni sono stata seguita da lui. La sua rigidità è stata positiva nel mio caso. Mi ha aiutato. Sapeva tutto di me prima di conoscermi. Lui sa tutto di noi e non siamo dei numeri. È “Lo” scienziato. Un esempio di etica medica e di condotta morale. Ho una sorta di sindrome di Frankenstein nei suoi confronti».
Cosa ricordi delle visite all’ospedale di Verona?
«Il fatto di andare al centro FC implica si sappia che cosa si ha. Quando nasci con qualcosa sai già di averla. È innato. Da piccola non etichetti la malattia. Sai che tossisci, hai l’intestino gonfio e prendi le pillole. Questo basta a spiegare perché devi andare in ospedale. Ad ogni modo, la parte della bambina in cui non stavo bene non me la ricordo. Però la mia mamma ha molto penato per curarmi. Con papà lo hanno fatto meravigliosamente. Ho subito operazioni importanti da piccola e ho due vistose cicatrici sulla pancia. Il mio problema più grande».
Perché cerchi di nascondere la malattia?
«Per non sentire le domande degli altri. La mia FC non si deve proprio vedere. Non è mai il mio biglietto da visita perché la vita non è fibrocisticocentrica. “Valutami per quella che sono”, penso sempre. La fibrosi cistica può diventare un buon alibi per non fare nulla. Quello che ho imparato è che me la devo cavare da sola. Avevo un contratto co.co.co e ho cercato di curarmi di più, anche se normalmente tendo a minimizzare tanto la malattia da non curarla. Il momento più difficile è questo, perché devo mettere in campo delle cose che sono miei diritti, ma non vorrei dirlo. Raccontare è uno dei metodi per non nascondersi più. Per cultura mia non usufruisco della legge 104: penso di non averne bisogno ora; troverei dunque scorretto farvi ricorso. Ad ogni modo, sapere che se e quando ne avrò necessità, potrò contare su leggi che mi tutelano, m’incoraggia e mi rende più serena».
Quando hai compreso la gravità della fibrosi cistica?
«In ospedale a Verona durante l’adolescenza. Gli altri avevano un modo diverso di parlare. “Che flebo stai facendo? Vado a fare la PEP. Sto in isolamento”. Rifuggivo quelli che erano appesantiti dalla malattia. Non mi andava di ascoltarli. Ho solo cercato di evitare di diventare tutta fibrosi e di vivere facendo le cose che avrei fatto comunque: studiare al liceo classico, iscrivermi a medicina, diventare dottore. È vero che non puoi programmare nulla, ma di fatto vivi e non ti poni il problema se ce la farai o no. L’angoscia è giornaliera non anticipatoria».
La natura, in fondo, è stata gentile con te.
«Ho avuto moltissima fortuna nella sfortuna. Ho fatto la mia vita normalmente, ma quanti gradi di fibrosi cistica ci sono? Tantissimi. Io ho aggredito lei, ma lei me l’ha permesso: sta là; è un nanetto in un angolo, che all’improvviso può diventare enorme, occupando tutta la stanza e la mia mente. Penso che invecchierò nella stessa maniera in cui sto vivendo adesso: curandomi e godendomi la vita a parte lei, anche se metto in conto che potrà esserci un acuirsi della malattia».
Qual è il tuo rapporto con le cure?
«Non ne sono mai stata ossessionata: ci ho dedicato molto poco tempo. Nella fase adolescenziale e universitaria non facevo terapia per pigrizia mentale, che è la cosa più stupida del mondo. D’altra parte la fisioterapia è una noia mortale oltre ad essere una rottura di scatole. Quello che capita oggi è diverso. Diciamo che quando lei non è più il nanetto, ma mi sopraffà, ricordo le cure. Sono l’esempio da non seguire mai. Mentalmente la cura per me è troppo impegnativa. Sono sciatta come paziente. Quando vado in visita, il medico chiede: “è arrivata la paziente del Burundi?”. Mi dice sempre: “sei molto tenace, hai una grande forza di volontà, ma la fibrosi cistica è rimasto il tuo ambito di adolescenza”».
Per fortuna che sei un medico…
«Esistono diversi processi di rimozione e di difesa».
Un episodio che ti abbia fatto ravvedere?
«L’unica volta in cui ho pianto è stato perché stavo molto male e non mi curavo. Il mio medico, il dottor Ratclif, responsabile del Centro di Supporto regionale alla Fibrosi Cistica dell’Ospedale di Cerignola, s’infuriò alla presenza del mio ragazzo: “non è possibile che con te debba fallire – disse. Hai gli strumenti per capire. Se non ti curi, io non ti curo più. La vita è la tua”. Non che gli abbia creduto, per me è sempre stato un esempio di professionalità e umanità. Capisce qual è il tuo limite; sa che ti deve curare oltre che i polmoni anche la testa. È un figo».
Quando esprimesti il desiderio di iscriverti alla facoltà di medicina non te lo sconsigliarono?
«Tecla (al tempo, l’assistente sociale del Centro di cura), mi pose dinanzi a due problemi pratici: la facoltà di medicina è un cammino lungo; lavorare in ospedale significa stare a contatto con i tuoi nemici numero uno: le infezioni. Era vero, ma rinunciare avrebbe significato non realizzare il mio sogno e io sono testarda. In famiglia nessuno mai si dichiarò contrario alla mia scelta. Oggi mi sono buttata a capofitto nel lavoro in ospedale, faccio guardie di 12 ore e vedo cose peggiori della fibrosi cistica. Anche questo mi porta a rimpicciolirla».
Da medico come giudichi il ricorso a mezzi estremi per far fronte a situazioni disperate?
«Da altri ho imparato a smettere di guardare alla vita soltanto da una prospettiva edonistica. Ci sono cose che la scienza non sa e non può spiegare. Per me è fondamentale farmi carico del paziente: quando lo conosci bene sai come aiutarlo».
Hai detto di essere fidanzata. Com’è il rapporto tra te, lui e la FC?
«Quello che gli altri vivono è quello che gli fai vivere. Della fibrosi cistica mi sono rotta le scatole io che ce l’ho, figurati gli altri quanto si rompono. Un po’ di leggerezza (non troppa), credo non guasti. Da tre anni Giuliano si prende cura di me. È lui a ricordarmi la fisioterapia, i controlli e soprattutto quando sto esagerando. “Ti sento stanca – mi dice. Perché non chiami il medico?”. È sempre Giuliano a ripetermi che non mi devo preoccupare: c’è lui a starmi accanto e non ha intenzione di mollare».
C’è chi sostiene che conoscere la malattia aiuti ad affrontarla. Qual è il tuo punto di vista?
«Io ho sempre scelto di sapere il minimo indispensabile. Sono piuttosto fatalista. Non nutro false speranze. Preferisco stare a vedere. Comunque le cure di oggi sono eccezionali». Quando Rita afferma: «io non mi sento uguale al mio vicino di stanza», non è per alterigia. La spiegazione sta nelle sue stesse parole: «non fare nulla è un altro modo per distaccarmi» dalla malattia e dai condizionamenti che porta con sé. Rita conosce la fibrosi cistica e sa decifrare i segni impressi nel proprio DNA. Semplicemente preferisce scrivere la propria storia senza interrogare il proprio codice genetico né gli astri, ma guardando dritto davanti a sé, scegliendo la distanza del proprio orizzonte e i mezzi per raggiungerlo e dischiuderlo.