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La bellezza fuori, la malattia dentro

Aurora

Non avrebbe potuto chiamarsi altrimenti Aurora, con quell’incarnato diafano, i gesti lievi, lo sguardo celeste e l’aura crepuscolare, che accende le cose intorno di una luce carezzevole. Diresti di averla già incontrata nei libri di fiabe, ma la sua quotidianità è assai più dura di quella vissuta dalle principesse nel c’era una volta. La matrigna con cui si confronta dalla nascita è la fibrosi cistica, una malattia genetica grave che non le ha impedito di crescere in bellezza e bontà, ne ha acuito la sensibilità, e la mette quotidianamente a confronto con l’inganno del Tempo, in una lotta incessante per sottrargli quanta più vita le viene rubata dalle cure.

Cosa ti ha portato ad accettare l’invito della Fondazione a prestare il volto per la campagna a sostegno del cinque per mille?

Speravo di fare qualcosa che potesse servire concretamente a qualcuno: trasmettere un messaggio di speranza, sensibilizzare le persone, sostenere la ricerca. Meno si sa più si è restii a dare. Raccontare è un modo per creare una vicinanza e permettere a chi ascolta di interessarsi a un problema e magari donare un poco del proprio tempo o dei propri risparmi per contribuire a cambiare le cose.

Cosa rispondi a chi sostiene che sembri una modella più che una malata?

«Le persone malate di fibrosi cistica hanno comunque tutte le possibilità che hanno gli altri. C’è una normalità nella nostra malattia, almeno all’apparenza. Questo crea una sorta di cortocircuito, perché i sani, quando sentono la parola “malato”, normalmente pensano a “diverso” e prendono le distanze. Lo fanno anche con discrezione, ma la gentilezza non porta a conoscere le persone, né a comprendere a fondo le situazioni».

Che cosa significa avere la fibrosi cistica?

«È come se ti togliesse una parte di te la malattia e devi fare di tutto per riaverla. Non riesci a stare al passo con gli altri, quando stai male: è come se avessi già sessant’anni. Respiri a fatica, ti fanno male le ossa e la testa. Ti senti debole e vulnerabile come una persona anziana, ma in un corpo giovane. Hai 18 anni, vorresti fare di tutto, ma tante esperienze ti restano precluse, perché ti mancano le energie per viverle. Da piccola non mi fermavo un attimo. Non è più così. È brutto da scoprire, ma non è un problema enorme finché non arrivano i ricoveri o cure pesanti. Allora diventa difficile anche uscire dalla stanza: non ne hai le forze. In ospedale non ti rendi pienamente conto di quanto stai male, perché non esci e non hai il confronto con il mondo che corre. Quello è spietato».

La malattia lascia segni sia esterni sia interni.

«Se osservi la nostra postura, per esempio, siamo spesso un po’ gobbi; molti di noi sono gracili e bassi, sviluppati in modo non armonico, a causa dell’insufficienza pancreatica e del malassorbimento; abbiamo cicatrici più o meno vistose. Quanto alla personalità, s’incontrano di frequente due tipologie caratteriali opposte: chi, come me, è molto riservato e prima di parlare ci pensa parecchio e chi, invece, parla e ride molto, troppo. Credo siano due modi diversi di reagire alla malattia: uno, più intimista, porta a interiorizzarla; l’altro, più esuberante, spinge a esternarla».

Sei sempre stata introversa?

«C’è un episodio che segna la cesura tra quella che ero e quella che sarei stata a lungo. Durante l’infanzia ho sempre avuto un’amica: eravamo in classe insieme ed eravamo pappa e ciccia, finché, in un periodo di vacanza, non andai una settimana in montagna. Al ritorno il mondo che conoscevo non esisteva più. Proprio quando avevo iniziato a legare con i miei compagni, mi sono ritrovata esclusa. Mi evitavano tutti e si comportavano male. Ero una bambina sensibile e vedevo le cose amplificate. Se avessi capito cosa non andava avrei potuto rimediare, invece nessuno mi parlava e continuai a non capire per mesi. Tornavo a casa sempre piangendo. I miei genitori decisero di cambiarmi scuola. Scoprii poi che mentre ero via quell’amica aveva detto a tutti che la trattavo come una schiava. Ovviamente non era vero. Io per lei mi ero anche presa una sedia in un occhio. Fu allora che iniziai a cambiare. Ero molto solare e mi spensi. Non volevo fare più niente. Mollavo tutto quello che iniziavo. Avevo disinteresse per le cose. Non sapevo come comportarmi».

La delusione nei rapporti di fiducia e nelle amicizie, il senso di inadeguatezza, il pessimismo quali conseguenze hanno avuto? 

«La depressione e la chiusura. Di negativo in negativo, per anni non ho vissuto: ho smesso di interessarmi agli altri, vivevo quello che mi si presentava davanti senza interagire. Soffrivo. Dalle medie non sono più andata bene a scuola. La malattia è diventata una giustificazione e in quarta ginnasio sono stata bocciata. I professori dissero che a causa dei ricoveri avevo fatto troppe assenze, ma io sapevo di non essermi impegnata abbastanza. Ho terminato in giugno il terzo anno di liceo. Quando, l’autunno scorso, la coordinatrice di classe è diventata la mia professoressa di matematica, mi davano per bocciata in novembre. Sapevo che penalizzava chi non si dava da fare, ma quello che ha mosso qualcosa nella mia testa è stato sentirle dire che non ero adatta al liceo classico perché la mia malattia mi provava troppo. Credevo di stare tentando di cambiare le cose, ma evidentemente non ci provavo abbastanza».

Poi cos’è capitato? Cosa ti ha riportato a guardare al lato assolato dell’esistenza? 

«Ho incontrato Sherlock Holmes. Mi sono appassionata al telefilm britannico riambientato in epoca odierna. I casi giungono a soluzione attraverso indagini complicate, incentrate sulla psicologia. Mi ha incuriosito e ho iniziato a pensare: “se l’essere umano può dedurre attraverso degli indizi così piccoli, perché non posso farlo anch’io?”. Sherlock mi ha aiutato a guardare alle situazioni nella loro ampiezza e profondità, per trovare qualcosa che spieghi perché è successa una determinata cosa. L’idea che non c’è nulla che l’uomo non possa fare mi ha dato la possibilità di cambiare, di avere una visione. La vita è bella, non semplice, ma ricca, anche con una malattia come la mia».

Ti fa paura la fibrosi cistica?

«Ne ho avuto paura intorno ai dieci anni, quando ho iniziato a capire che avrei dovuto curarmi sempre e che non si poteva guarire. Ce l’ho avuta anche dopo avere letto in rete cose che poi si sono rivelate non essere nemmeno vere. In generale, però, non ho paura della fibrosi cistica. La sensazione di allerta è qualcosa che si prova scoprendo cose sconosciute e che di solito entrano a fare parte della quotidianità».

Sei innamorata?

«Uno dei grandi rimorsi della mia vita-non-vissuta è di non essermi mai innamorata. Mi chiedevo sempre perché i ragazzi non mi guardassero né si interessassero a me. Proiettata nella realtà cruda della malattia, vedevo i difetti nelle persone e nelle cose prima che i pregi. Non riuscivo a ridere e non mi piaceva divertirmi. Quando conoscevo qualcuno raccontavo le mie esperienze negative, senza pensare che è la positività ad attrarre. Le persone non vogliono problemi. Per lo meno, prima di dire le cose più serie, serve dire quelle più leggere. Pensavo di avere ragione e la cosa più difficile da ammettere è di avere torto. Quando ho smesso di dare la colpa alla superficialità altrui la situazione è iniziata a cambiare. Ad ogni modo, un ragazzo ancora non ce l’ho».

Progetti?

«Mi piace scrivere, ma non voglio fare la scrittrice. È dalle elementari che ho in testa di fare la giornalista. Mi piace riportare i fatti per fare conoscere la verità».

Se pensi alla ricerca scientifica cosa ti viene in mente?

«La ricerca è qualcosa che si persegue per scoprire una cura che serva a vivere una vita normale. Io non riesco a stare appresso ai miei compagni se camminano velocemente. Devo chiedere loro di rallentare. Questo prova l’autostima, la colpisce. Ho però una certezza: ci sarà una cura prima o poi, è solo questione di tempo, perché l’uomo è in grado di fare qualsiasi cosa e una speranza concerta è quanto basta a muovere le persone, perché la speranza è un motore, un dio, e se cominciate a fare qualcosa il resto verrà da sé».

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