Dire che la ricerca dona vita in più è uno slogan che per Chiara si è trasformato negli anni da sogno a realtà. Così è andata per lei, 37 anni a dicembre, che un anno fa ha avuto un bambino, a dispetto della fibrosi cistica con cui fa i conti da sempre.
La sua è la storia di un fortunato incrocio di eventi: la prescrizione di Kaftrio, farmaco salvavita per il trattamento di alcune mutazioni che causano la FC, e l’arrivo di una gravidanza che, nella nuova famiglia creata con Riccardo, ha portato alla nascita del piccolo Achille. La sua vita è cambiata, ripartita, quasi fosse nata anche lei una seconda volta, proprio in quel momento. Confessa che per tanto tempo, dopo aver visto che il farmaco funzionava davvero, ha continuato a sentire la paura, a svegliarsi di notte con quel sogno ricorrente fatto di tosse, catarro, respiro corto, come se la malattia fosse tornata da capo. Ma era solo un incubo.
Racconta com’è andata: hai sempre avuto il progetto di diventare mamma?
Ho sempre pensato che mi sarebbe piaciuto avere un bambino. Però sapevo che sarebbe stato difficile, molto difficile.
Questo ti faceva star male?
Mi faceva stare un po’ male e allora cercavo di non pensarci, mi dicevo “intanto viviamo e poi vedremo cosa succederà”.
E infatti qualcosa di bello è successo, anzi due cose belle. Partiamo dalla prima.
Ho conosciuto Riccardo, stiamo insieme da più di cinque anni e con lui è scattata la volontà, insomma il progetto.
E poi è arrivato il farmaco adatto alle tue mutazioni.
Lì non è andata tanto liscia. Era l’estate del 2021 e stavo male, febbre, febbre che non passava. Alla fine, mi ricoverano per un’infezione e, quando esco guarita, inizio finalmente a prendere la nuova pastiglia. Penso “è fatta” ma dura poco: subito riparte la febbre a 38° e per tre settimane non mi lascia. I medici decidono la sospensione della terapia, perché sospettano che sia proprio lei la responsabile, e solo allora la febbre se ne va.
Brutto segno.
Ero disperata: aspettavo questo farmaco da 35 anni ma il mio corpo lo rifiutava. Qualche mese dopo, a novembre, hanno deciso di riprendere la terapia e, con qualche alto e basso, ho iniziato a stare meglio.
Descrivi “stare meglio”.
Respiro limpido, pulito, niente catarro, niente crepitii. Un’altra vita. Solo in quel momento sono riuscita a capire davvero quanto possa essere difficile per una persona sana comprendere cosa voglia dire giorno e notte con la tosse, il respiro che non viene, la fatica di non avere abbastanza ossigeno, e poi le terapie ogni giorno, più volte al giorno. Ecco, io l’ho capito veramente solo quando mi sono ritrovata dall’altra parte e ho sentito la differenza tra avere la fibrosi cistica ed essere invece sani, liberi di respirare.
E così, dal farmaco al test di gravidanza il passo è stato breve?
Breve ma non brevissimo. Volevo prima essere sicura che Kaftrio non mi avrebbe fatto altri scherzi.
Prudente. Ma almeno eri felice?
Anche per quello ho preferito aspettare: non mi sono permessa di essere felice subito.
Perché no?
Dovevo decidere se, con l’arrivo della gravidanza, avrei dovuto sospendere il farmaco.
Una scelta difficile. Chi ti è stato vicino?
I miei genitori, mio marito. Sono protettivi nei miei confronti ma non hanno mai cercato di influenzarmi. Anzi mi hanno detto “qualsiasi sia la tua scelta, noi ti appoggiamo”. E poi c’è un’altra persona che mi ha aiutato a capire, il dottor Castellani che conosco da tanti anni perché mi ha avuta in cura da piccola. Nemmeno lui mi ha detto cosa dovevo fare ma mi ha messo a conoscenza di studi americani su questo problema, mi ha descritto i dati raccolti fino ad oggi e, tra le righe, io ho percepito che potevo rischiare di tenere il farmaco. Così ho deciso di continuare la terapia, ho firmato e mi sono presa questa responsabilità.
È andato tutto bene, per la tua salute e per quella del bambino. Qual è il tuo prossimo desiderio?
Non ci ho pensato bene. Per adesso vorrei solo continuare a stare bene per godermi la vita, non solo la mia ma anche quella di Achille e di Riccardo. Vorrei fare con loro quello che non ho mai potuto fare perché, quando non hai la salute, non riesci né hai voglia di fare niente. Viaggiare, per esempio, in passato l’ho fatto con i miei genitori ma adesso potrei viverlo in modo diverso, più leggera, senza la fatica della fibrosi cistica.
Un paio di aggettivi per dire come ti senti adesso?
Frizzante… e smemorata, con la testa nelle nuvole.
Sintomi da innamorata?
Ecco, forse come essere innamorati. Quando avevo dieci anni il papà di una mia amica, anche lei con la FC, mi aveva detto di portare pazienza per altri dieci anni e poi avremmo buttato
la Pep* dalla finestra. Ma di anni ne sono passati 25! Non so come descrivere quello che sento adesso ma credo sia successo un miracolo.
Un miracolo dietro il quale ci sono decenni di lavoro da parte della ricerca. Cosa pensi di questo?
Un lavoro lento, meticoloso, paziente che ha portato a grandi cose. C’è chi ha potuto aspettare per un tempo tanto lungo e chi non ce l’ha fatta.
Hai un messaggio per le persone che ancora non hanno una cura?
Ne ho due: non perdere la speranza e non tralasciare mai la fisioterapia. Bisogna restare più puliti possibile per essere pronti quando arriverà un farmaco anche per loro.
Sembri molto fiduciosa nelle possibilità della ricerca di consegnarci un mondo senza fibrosi cistica. La tua esperienza personale adesso ti dà ragione, ma tu sei sempre stata così ottimista?
La paura c’è sempre stata. Da un lato ero sicura che, passo dopo passo, la soluzione sarebbe arrivata, dall’altro lato ero realista: non pensavo che io sarei stata tra i privilegiati e che un farmaco sarebbe arrivato in tempo anche per me.
Nonostante questo, tu e la tua famiglia non avete mai fatto mancare il vostro sostegno alla ricerca, fino dalla nascita di Fondazione e anche oggi.
Sì, io continuo a testimoniare, i mei genitori continuano a sostenere progetti di ricerca attraverso la Delegazione di Vicenza. Io vedo la ricerca come un insieme di mattoncini che tutti insieme, noi
sostenitori e i ricercatori, costruiamo. In decenni di lavoro siamo arrivati ai progressi che vediamo adesso: per questo vale la pena continuare a produrli, in Italia e in tutto il mondo, finché non usciranno cure nuove per aiutare chi ancora non ha nulla.
Questa intervista compare anche sul Notiziario FFC Ricerca 63.