Greta è una ragazza solare, con un sorriso aperto e gli occhi che luccicano. Attualmente abita in Svizzera, dove è nata, ma ha vissuto per 15 anni in Italia dove è ancora volontaria per la Delegazione FFC Ricerca di Sondrio Valchiavenna.
Racconta che alla nascita pesava 2,8 kg. “Dopo due mesi ero 2,6 kg e mia mamma si è insospettita, anche perché diceva che quando mi baciava le sembrava di baciare il mare.” Inizia così il suo racconto, che presto la vede entrare in ospedale e alternare momenti di relativa quotidianità con la malattia a momenti molto difficili, in attesa del farmaco.
Come sono stati i primi anni?
Dopo avermi diagnosticato la fibrosi cistica mi hanno portato a Berna e lì ho incontrato quella che poi è diventata la mia dottores-
sa, che io definisco la mia metà cuore perché mi sono sempre sentita trattata come una figlia. Fino al 2009 sono stata abbastanza bene, poi ho preso prima un batterio, la Burkholderia, e in seguito un fungo. Da quel momento sono iniziati i ricoveri frequenti e nel
2017 sono peggiorata tossendo 20 ore al giorno, perdendo i capelli e facendo flebo di continuo perché avevo sviluppato una resistenza
agli antibiotici.
Come vivevi il rapporto con la scuola e i compagni?
A partire dalla terza superiore sono stata spesso male. Il quarto anno ho frequentato tre mesi e l’ultimo anno sono riuscita ad an-
dare solo le prime settimane, perché ero in ospedale a Berna, avevo le fisioterapie tre volte al giorno e quindi non potevo frequentare. Con gli amici non ho avuto rapporti sempre facili, ma non li biasimo: quando sei giovane hai voglia di fare festa e, dopo una volta o due che le persone venivano a trovarmi, a un certo punto smettevano. Mia madre mi ha aiutata a comprendere tutto questo. Mi diceva che non si trattava di cattiveria, che erano giovani ed era ovvio avessero voglia di divertirsi. Questo mi ha aiutato a non ser-
bare rancore.
Gli esami di maturità alla fine li hai dati?
Sì, anche grazie ai miei genitori che hanno creduto in me e nelle mie capacità. Sono i miei migliori amici; mia madre mi è stata sempre vicina, come del resto mio padre, dolcissimo e molto divertente. Ma non solo, anche mio fratello e i miei zii sono la mia gioia! Ero lontana da casa, a sei ore di macchina, avere i miei vicini è stato fondamentale. Giorni fa ho rivisto dei video in cui io e mia mamma in ospedale ridevamo come pazze per sciocchezze, mentre eravamo chiuse lì e addirittura io non mi muovevo dal letto perché non avevo la forza di scendere.
Il 2019 è un anno di svolta, ci racconti quell’estate?
Ad agosto 2019 il mio medico mi avvisa che dobbiamo fare un pre-ricovero perché sta arrivando il farmaco. Tornando dall’ospedale mi ferma la polizia. Sai chi era uno di quei carabinieri? (ride maliziosa) Paolo, quello che oggi è mio marito. Il 10 settembre mi avvisano che è arrivato Tirkafta (Kaftrio in Europa, ndr). Il più bel viaggio della mia vita e il più bello di quelli verso Berna. Tenevo un diario e in quei giorni scrivevo “cosa succederà, che botta mi arriverà?”. Ma soprattutto pensavo se sarei stata pronta. Beh, lo sono stata perché dai primi giorni ho cominciato a stare bene, a vivere una sensazione stranissima. Sia io che mia madre abbiamo passato i primi mesi sospese tra felicità e stupore perché ci chiedevamo quando sarebbero arrivati i problemi, dato che con gli antibiotici accadeva che stessi bene e poi invece peggioravo. Superata questa immobilità da stupore, ho iniziato a pensare cosa avrei fatto.
Quindi per la prima volta hai potuto immaginare di fare dei progetti, di vivere la tua vita?
Sì. Avevo tutta una vita non vissuta e vista in fotografia. Ho fatto snorkeling per la prima volta, ho corso dopo moltissimo tempo, sono andata a cavallo, un altro dei miei sogni. Ora faccio una o due inalazioni al giorno e mi piace molto camminare, anche in salita: prima niente di tutto questo era possibile.
Che rapporto hai con la fibrosi cistica?
Io sono io, la fibrosi cistica è un’altra cosa, ed è soprattutto una condizione che mi ha fatto apprezzare la vita. Essere fuori dall’ospedale significa già stare bene, perché non sei ricoverata, ma anche in clinica ho sempre cercato di essere lucida. Ricordo che anche durante i mesi più duri prendevo lo specchio, mi guardavo e dicevo “certo che sembro proprio malata!”, e poi ridevo con mamma. Io non prendo le cose troppo sul serio e cerco di trovare il lato leggero e divertente della vita. Farsi troppi problemi o rimuginare non ha senso. Se una cosa deve capitare, capita. E poi credo nella legge dell’attrazione: se pensi una cosa ti arriva. Sai cosa mi dicevo in attesa del Trikafta? “Il farmaco sta arrivando, avrò una bellissima vita”. Il pensiero era che ci fosse qualcosa in palio per me, a ripagarmi di tutto lo sforzo che stavo facendo, le 10 ore di terapie, le flebo, le ore passate a tossire.
Hai fatto una grossa donazione a Fondazione nel nome di “È ora di vivere”. Da dove nasce questa iniziativa?
L’idea è partita dalla mia famiglia e non li ringrazierò mai abbastanza per l’energia e l’amore che mi hanno trasmesso. Ci avevano detto che il trattamento compassionevole con Trikafta in Svizzera non sarebbe stato passato a tutti. Mi trovavo in una situazione davvero critica: sentivo che in quel periodo ero in pericolo, dormivo 14 ore, un fungo mi stava uccidendo. Non potevo permettermi di non avere il farmaco ma, siccome costava tantissimo, ho pensato con la mia famiglia di aprire una raccolta fondi. A settembre, dopo aver iniziato ad assumere il farmaco, ci siamo fermati e abbiamo deciso di devolvere 130mila euro raccolti alla Fondazione. Perché io voglio che un farmaco come il mio arrivi a tutti e non tra dieci anni, il più presto possibile. Il mio più grande desiderio è aiutare la ricerca a trovare i farmaci per tutte le mutazioni, perché le persone possano vivere come me adesso. Questo è quello che sogno per tutti.
Questa intervista compare anche sul Notiziario FFC Ricerca 62.