Foreverland è la storia di un malato di fibrosi cistica realizzata da un regista canadese che di fibrosi cistica è affetto. Il cast conta attori di fama internazionale e il potere della settima arte potrebbe portare la conoscenza della malattia dove non è mai giunta prima. Abbiamo intervistato Maxwell McGuire, il giovane regista, per entrare assieme a lui nel cuore del film.
Essere talmente concentrato sul dover morire da dimenticare di vivere è quello che capita a Will, il protagonista di Foreverland: cosa porta a dimenticare di vivere e cosa aiuta a farlo a pieno?
«Non passa giorno in cui Will non pensi di dover morire. Ha paura di vivere, paura di amare e si rifiuta anche di sperare. Dimentica che ha a disposizione l’oggi, questo istante, e che il domani non è promesso a nessuno. Dunque direi che è proprio la paura a fare dimenticare di vivere a pieno.
Cosa fai tu, Maxwell, per tenere a bada la paura?
Quando Hannah dice a Will: “duri 30 o 300 anni, ognuno pensa che la vita sia troppo breve”, gli ricorda che non è poi così diverso dagli altri come crede. È facile dimenticare che potrebbe non venire domani e spesso ci s’impiega tutta la vita a capire quali siano le cose che contano davvero. Da parte mia cerco d’imparare da ogni singolo giorno; faccio tesoro del tempo insieme alle persone che amo e non lascio che i momenti più duri della vita m’impediscano di godere di quelli più belli, che sono la più parte».
Non ti stanchi di ripetere che Will non è te e la storia non è autobiografica, ma anche tu hai la fibrosi cistica e la sceneggiatura è piena di cose che devi avere sperimentato. Maxwell com’è?
«Io e Will abbiamo senz’altro parecchie cose in comune, a partire dall’immaturità dei ventenni. La prima volta che ho incontrato il protagonista Max Thieriot, mi ha chiesto: “sei tu Will?”. Ci ho pensato su e gli ho risposto di no, anche se ho fatto esperienza della maggior parte delle cose che succedono nel film. Gli ho detto che avrebbe potuto farmi tutte le domande che voleva e prendermi come riferimento (spesso lo ha fatto), ma ha creato il suo personaggio senza dovermi copiare e credo gli sia riuscito magnificamente. Adesso mi piace rispondere che sono Will così come esce da Foreverland: amo sentirmi impegnato, fare nuove esperienze, incontrare persone nuove e, se anch’io ho i miei alti e bassi, non passo certo il tempo pensando di dover morire».
Ricordi il momento in cui hai capito che dalla fibrosi cistica non si poteva guarire?
«Effettivamente ricordo il momento preciso. Avevo 13-14 anni. Fu durante la lezione d’inglese. La mia insegnante, per fare conoscere ai miei compagni la fibrosi cistica, pensò fosse una buona idea farci studiare un articolo a riguardo. Lo lessi io a voce alta in classe. Quando arrivai al passaggio che diceva: “l’aspettativa media di vita è di 33 anni”, la gravità della malattia penetrò dentro di me. Sapevo di non essere esattamente come gli altri: dopo tutto dovevo prendere le medicine a ogni pasto, abbandonare le lezioni ogni giorno per andare a fare la fisioterapia, ero sempre dentro e fuori dagli ospedali, ma non avevo mai saputo che la mia malattia non si potesse guarire. Andai a casa e mi sfogai con i miei genitori, che mi assicurarono sarei vissuto fino a cent’anni. Ora ne ho 34 e sto abbastanza bene. Sono fortunato: sembra che vivrò ben più a lungo di quanto gli esperti avevano previsto quand’ero bambino».
La fibrosi cistica richiede cure quotidiane pesanti. Quanto sei riuscito a prenderti cura di te durante la lavorazione del film?
«Alla vigilia dell’inizio delle riprese, sapendo bene che sul set ci sono tempi stretti, ho raddoppiato le cure (aerosol, ginnastica, fisioterapia), le attenzioni rispetto la dieta, le ore dedicate al sonno. Durante le riprese ho sempre preso i farmaci e fatto l’aerosol; ho invece dedicato meno tempo alla fisioterapia perché mi pareva più importante riuscire a riposare. Prima di girare stavo bene, dopo aver girato mi sono ammalato ma, grazie al doppio sforzo anticipato, sono riuscito a mantenermi in salute durante le riprese e a riprendermi completamente in seguito, evitando il ricovero in ospedale. A dirla tutta però, sarei stato disposto a morire pur di riuscirci!».
Durante il viaggio Will impara che cercando una cosa se ne può trovare anche un’altra: l’amore per esempio. Hannah, però, conosce bene la malattia. Credi sia più difficile che una persona sana, non coinvolta nel problema, possa avere una relazione con una malata?
«Effettivamente può risultare difficile, per qualcuno che non abbia mai dovuto confrontarsi con problemi di salute, stare con un malato di fibrosi cistica. I problemi fisici e psicologici generati dalla malattia non sono sempre facili da comprendere. Personalmente non ho mai avuto problemi a riguardo. Trovo che essere aperti e onesti con i propri compagni, coinvolgendoli nelle cure, dia loro la possibilità di sentire di poter fare la differenza sulla nostra salute. Una volta che si sentono coinvolti la relazione stessa si rafforza. Qualche volta ti fa prendere più cura di te stesso per godere del tempo insieme. Come aspettarsi che qualcuno ti voglia bene e si prenda cura di te se non lo fai tu per primo? Nella mia vita sono stato super fortunato con le ragazze: tutte hanno fatto del loro meglio, a loro modo, per aiutarmi a mantenermi in salute».
Nei festival in cui è stato presentato, Foreverland ha sempre fatto il tutto esaurito. Quali sono state le reazioni del pubblico?
«Finora ha risposto molto positivamente, sia quello che conosceva la malattia sia quello che non la conosceva. Ho ricevuto numerosi messaggi da pazienti incerti se venirlo a vedere o meno: erano terrorizzati da come la fibrosi cistica poteva essere stata presentata. Alla fine gli è piaciuto perché mi hanno detto di essersi riconosciuti in Will sotto alcuni aspetti. I nostri account Facebook e Twitter sono pieni di messaggi di supporto provenienti dalla comunità CF mondiale che mi ringrazia per aver raccontato la “nostra” storia. In molti mi hanno avvicinato per dirmi di avere imparato parecchio e per chiedere come si poteva aiutare facendo donazioni. È un grande privilegio partecipare a un festival cinematografico e ritrovarti così vicino al pubblico da poterlo sentire ridere e piangere e percepire di averlo toccato emozionalmente».
Cosa è significato per te girare il film e cosa ti piacerebbe trasmettesse agli altri?
«Girare Foreverland è stato realizzare un sogno. Fare film è in generale un privilegio per pochi; potere anche raccontare la “tua” storia è qualcosa di straordinario. Per me è stato il coronamento di dieci anni di formazione, sei di lavorazione sul progetto e di una vita di lezioni apprese vivendo con la malattia. Lo sceneggiatore Shawn Riopelle ed io non abbiamo preso la responsabilità alla leggera. Volevamo raccontare una storia che trasmettesse un messaggio universale di vita e di speranza, perché non è mai troppo tardi per iniziare a prendere dei rischi. “Vivi quando puoi” è quello che diciamo: un messaggio tanto antico quanto facile da dimenticare».