«Chissà se la gente ci pensa, quando cammina accanto a un ospedale, che tutte quelle stanze sono occupate, e chissà se capisce la fortuna che ha», si domandava Angelica. Riusciva a colmare la distanza tra quello che diceva di volere fare e le situazioni in cui si trovava, portando il limite sempre un po’ più in là. Sei tutti i limiti che superi, diceva, e ora sembra valicare anche quelli del cielo, quasi a volere dimostrare che l’amore sovrasta ogni cosa (come non si stancava di ripetere), anche la morte. Ha cambiato il nostro mondo. Con lei la fine della vita è diventata parte del racconto e la memoria una possibilità, un motore per portare nuova linfa alla ricerca. Non passa giorno in cui le persone non traggano ispirazione da lei per agire.
Stefano sta seduto nella camera di Angelica. «Ho trovato la sua agenda – dice. 29 gennaio 2018. “La cosa più bella che ho fatto nella vita: diventare testimonial e di conseguenza punto di riferimento per tanti pazienti e genitori di ragazzi FC. Do anima e cuore per la Fondazione” – legge ad alta voce. Potere essere utile, fare un regalo, è più bello che riceverlo. Quando lo si scopre la vita migliora», spiega. È quello che lui e mamma Wonder Anto hanno insegnato alle loro bambine. Angelica aveva talmente interiorizzato il messaggio che si è sempre preoccupata più per gli altri che di se stessa. «Con lei l’affetto si sbilanciava. Aveva bisogno di cure e veniva spontaneo darle tante attenzioni – ammette il papà. Mia moglie viveva in simbiosi con lei, senza fare mancare il proprio amore a Serena, nostra figlia maggiore. È stata fondamentale nella crescita di Angelica e una colonna portante nella sua vita. Ha dato tutto quello che poteva per curarla e farle vivere una vita pressoché normale. Se Angy è riuscita a fare tutto quello che ha fatto è stato merito di Antonella e di Serena, che è stata più di una sorella. È stata una seconda mamma. È stata stupenda – sottolinea Stefano. Nella nostra famiglia c’è sempre stato un amore sopra le righe, ce lo dimostravamo nel nostro abbraccio a quattro, che Angelica ha pubblicato nel suo ultimo post Instagram – aggiunge. Perché lo sport potesse allungarle la vita, le ho anche costruito una piscina, indebitandomi forse più del dovuto. Poco prima di andarsene mi ha ringraziato proprio per questo. Avevamo un rapporto molto intenso. Da bambina la bucavano anche otto volte per trovarle una vena. Io ho paura di fare un prelievo. La tenevo tra le braccia e sudavo, mi sentivo male. Le infermiere mi facevano sedere e mi sollevavano le gambe. Anche da adulta, mi demoralizzavo io per lei. Era Angelica che risollevava me. Alla fine mi faceva stendere sul letto e mi preparava una maschera per il viso. Il 21 giugno, in seguito a una polmonite bilaterale atipica, abbiamo passato un paio di notti sul filo del rasoio. Io, vedendola già torturata da quando era nata, ho chiesto che in qualsiasi modo decidessero di agire, si assicurassero che non provasse dolore. “Allora, devo crepare?”, mi chiede col suo solito piglio. “Ti faccio parlare con la tua dottoressa”, rispondo sconsolato. “Angelica, tu ti meriti un’altra chance. Secondo noi ce la puoi fare ancora”, le dicono i dottori. È stata in ECMO per dieci giorni. In terapia intensiva non potevamo restare. Io e Serena siamo andati a dormire in una stanza vicino all’ospedale. Alle 5 di mattina mi suona il telefono. Sobbalzo. Era lei. Stava organizzando il viaggio della sorella in California e voleva che sbloccassimo la carta di credito perché doveva fare qualche operazione online. Aveva riempito un foglio a protocollo di consigli, indicazioni, note, perché Serena potesse fare una vacanza indimenticabile».
Mai che abbia avuto un’ombra di rimpianto o di rimorso verso qualcuno, per le situazioni negative. Nessun sentimento di rivalsa verso gli altri né nei confronti della vita. Ogni volta che si trovava in condizioni progressivamente più complicate e pericolose, aveva un’incrollabile fiducia di superarle e progettava cose senza sosta, anche a distanza di mesi, lasciando tutti perplessi e ammirati per la capacità di sfidare il tempo e i limiti. «Voglio andare a distribuire i panettoni per Natale; sto scrivendo un libro; nel 2020 mi voglio sposare – diceva. Ho già iniziato a organizzare». Mai una volta che si sia ribellata alle cure. I viaggi, la libertà di movimento, le energie venivano progressivamente a mancare, ma lei continuava a parlare di quello che ancora poteva fare. Voleva vivere. E quando non ha più potuto farlo, ha lasciato un’eredità importante a chi ha più amato.
«Era ribelle da piccola – sorride il papà. È sempre stata molto diretta, molto più sveglia dell’età che aveva e più matura dei coetanei. Una sera, l’ultimo mese in cui stava male, mi dice: “ho dato le ultime volontà all’Andrea”. “Non lo faccio io che ho 58 anni e lo fai tu che ne hai 26?”, replico. Ma lei insisteva. Io faccio fatica a recitare, allora le rispondo: “se vuoi parlarne per riderne, ok”. Era meticolosa in tutto. Quando era sotto morfina, ha avuto un momento di lucidità. Per un’oretta ha continuato a parlare. Ci ha detto delle cose con una serenità, una tranquillità, una saggezza tali. Noi tutti piangevamo. “Ma chi c’è con te, Angelica?”, le ho chiesto più di una volta. “Non c’è nessuno”, ha continuato a ripetere. Ci ha dato tanta forza per affrontare la situazione a posteriori, ma ci manca da morire». Ha sempre sostenuto che il segreto della sua serenità consistesse nell’essere grata della propria vita, godersi tutto in ogni attimo e mettere amore in ogni gesto, per ogni persona. Provare gratitudine per ciò che si ha e liberare tutto l’amore che si può dare. È questo che ci ha insegnato.
«Un punto di contrasto con me riguardava tutte le cose che faceva per la Fondazione – racconta Stefano. Investiva moltissime energie per questo e temevo si sfinisse. “È la mia vita, papà, non mi rompere”, replicava. Era un vulcano, un fiume in piena. L’8 settembre, il giorno della Marafibrositona, non mi ha detto che aveva la febbre. Si è presentata lì ugualmente, per poi stare peggio e venire via un paio di ore dopo. Ha passato una brutta notte e la mattina l’abbiamo portata in ospedale in ambulanza. È stato l’ultimo ricovero. Era il 9 settembre. Non è più tornata a casa. Mi consola pensare che quei pochissimi mesi in cui è stata bene dopo il trapianto li abbia vissuti da sposina in un appartamento in affitto con Andrea, godendosi la casa, l’intimità e gli amici. Lo chiamava Sant’Andrea. Un ragazzo paziente, pacato, tranquillo, cosa rarissima. L’ho ringraziato per esserci sempre stato e per averla resa felice, come abbiamo cercato di farlo noi.
Credo che Angelica fosse più preparata di noi al distacco. Era conscia da tantissimo tempo che la malattia poteva prendere il sopravvento, ma in cuore sperava sempre di farcela, mettendo da parte la paura. “L’ECMO non era così spaventosa come l’avevano descritta”, è riuscita a sostenere. Il diavolo non è brutto come lo si dipinge – riesce a commentare Stefano stupendosi una volta di più del coraggio della figlia. Aveva tantissimi progetti. Non li possiamo abbandonare. Mi sento di dare un messaggio di fiducia, che è il proseguimento di quello iniziato da Angelica – conclude. La ricerca va avanti, sta facendo progressi enormi, bisogna continuare a combattere. Purtroppo lo Stato non sostiene i ricercatori. Dobbiamo farlo noi, senza demoralizzarci, nell’incrollabile certezza che il progresso scientifico porterà una soluzione. Angelica la strada ce l’ha mostrata. Percorriamola con fiducia, tenendo a mente le sue ultime parole: “se voi tutti sarete felici, sarò immortale».