L’Università di Palermo ha ingaggiato la propria battaglia con le mutazioni stop da oltre un decennio ma adesso, dopo anni di pazienza, tentativi su tentativi, siamo arrivati al punto: molecole attive sulle mutazioni stop sono state brevettate e trasferite a una azienda farmaceutica che si sta occupando del loro sviluppo e trasformazione in farmaco.
Perché questo passaggio è estremamente importante? Perché al momento non sono disponibili farmaci per questo genere di mutazioni che interessa circa il 20% delle persone con FC: la fetta più grande di chi è ancora in attesa di una cura.
Andrea Pace, una laurea in Chimica e ora professore ordinario al Dipartimento di Scienze Tecnologiche, Biologiche, Chimiche e Farmaceutiche di UniPA – nome interminabile che rende però giustizia all’interdisciplinarietà spinta di questa ricerca – fa parte del gruppo di lavoro che ha segnato la svolta.
Le mutazioni stop comportano l’interruzione della sintesi della proteina canale del cloro. Le molecole da noi studiate consentono il superamento del codone di stop prematuro e di portare così a termine la sintesi della proteina CFTR. La loro ottimizzazione nasce dallo sviluppo, con metodi computazionali, di un modello farmacoforico basato sui dati di attività di readthrough di una serie di derivati eterociclici.
Ha presente quando leggiamo velocemente un testo che contiene una parola sbagliata? In quel caso il nostro cervello è in grado di capire ugualmente il senso della frase: in pratica salta l’errore e arriva lo stesso alla comprensione. Ecco, le nostre molecole confondono il segnale di stop, l’errore, e consentono di proseguire la lettura: si piazzano dove c’è la mutazione come se fossero un post-it e permettono la prosecuzione della lettura. E a questo punto, grazie all’ attività di readthrough, di lettura appunto, è possibile portare a termine la sintesi della proteina tronca o del tutto assente. Così abbiamo ingannato il sistema.
Ancora no. Le distinguiamo con delle sigle. La più attiva si chiama NV848 dove NV sta per Nicolò Vivona, il professore che alla fine degli anni ‘90 ci ha iniziato allo studio dei derivati eterociclici e che oggi non c’è più.
Era la fine del 2009 ed eravamo alla ricerca del post-it di cui parlavamo prima, che si attaccasse alle mutazioni stop. Dalla simulazione su computer iniziavamo a ricevere segnali positivi ma avevamo bisogno di un salto in avanti: come provare che questo meccanismo di aggancio potesse replicarsi anche nella realtà? È stato allora che ho chiesto aiuto ad Aldo Di Leonardo (un veterano nello studio delle stop, dal 2011 principal investigator di importanti studi in materia, finanziati da FFC Ricerca, ndr) e insieme a Ivana Pibiri, Laura Lentini, Raffaella Melfi e Marco Tutone abbiamo messo insieme un gruppo di ricerca interdisciplinare per sconfiggere le stop.
Di lì siamo partiti con i test in vitro e nel 2014 con le ricerche guidate da Lentini-Pibiri per potenziare l’attività biologica di correzione (progetti FFC#1/2014, 3/2017 e 6/2020, ndr).
A quei tempi il modello di studio multidisciplinare non era affatto scontato e io sono stato fortunato a trovare colleghi con diverse competenze con cui confrontarmi.
Gli Stati Uniti di certo. Rispetto all’Italia è stato un salto culturale potente.
Negli Stati Uniti la scienza è scienza, senza tante etichette. L’apertura è a 360°: chi si occupa di chimica organica non ha paletti attorno ed è normale che non si dedichi solo al suo pezzo di molecola ma si interfacci con chi segue la chimica computazionale o la biochimica o lo sviluppo dei farmaci. E a Palermo è andata proprio così.
È un’emozione che non ha paragoni: le incertezze, i tempi in attesa delle conferme, è come andare sulle montagne russe con il cuore che batte forte e le scariche di adrenalina.
Nel 2016 abbiamo iniziato a prospettare a Fondazione la nostra idea di sviluppo dei progetti e in seguito è nato il brevetto in contitolarità. Siamo stati felici di poter proseguire il percorso insieme.
Poi la svolta, con la dimostrazione di interesse di un’azienda nei confronti delle molecole NV.
Affidare in licenza le molecole brevettate è stato come dare in usufrutto una casa: l’azienda ha tutto l’interesse a supportare il loro sviluppo ma, se la collaborazione si dovesse interrompere, la proprietà resta all’Università di Palermo e a Fondazione.
Dipende dai risultati dei test che stiamo facendo sugli organoidi e in vivo sui topi.
Se tutto va bene, e i segnali sono al momento buoni, potremo approdare agli studi clinici sull’uomo: passaggio estremamente dispendioso per cui serve l’intervento di un’azienda impegnata in un piano strategico di investimento importante.
Può essere.
Lo sviluppo di un farmaco, a partire dal momento zero, richiede una media di 12 anni. Noi siamo a metà strada. Quest’anno avremo l’esito dei test in vivo e questo ci dirà molto sui tempi necessari.
C’è un momento preciso in cui penso alle persone come Giulia. Quando ottengo un risultato. Soprattutto ora che mi occupo di fibrosi cistica, non posso evitare di immaginare quali potrebbero essere le conseguenze dal punto di vista della cura.
Questa intervista compare anche sul Notiziario FFC Ricerca 60.
Sullo stesso argomento, è disponibile anche l’intervista alla professoressa Laura Lentini.