Claudia è nata nel 1975 e il 27 maggio compirà 42 anni nonostante la fibrosi cistica, la malattia che alla nascita le lasciava poche speranze di vita. I progressi della ricerca hanno cambiato il corso degli eventi, espandendo il suo orizzonte e quello di tutte le persone nate con questa malattia.
Quali sono i tuoi ricordi di bambina riconducibili alla fibrosi cistica?
«Non capivo perché andavo in ospedale per curare la tosse. Nemmeno il mio percorso scolastico è stato regolare. Non ho fatto l’asilo. L’esperienza è durata tre giorni soltanto perché le maestre non si prendevano la responsabilità di darmi le pastiglie. Ero a casa da sola e aspettavo che i bambini della via tornassero da scuola per giocare con loro. Non ho mai passato tanto tempo in ospedale e già questo era originale per essere nata con la fibrosi cistica, ma dalle elementari non c’era ricovero in cui non capitasse il giorno in cui si restava in stanza con le tapparelle un po’ abbassate, senza capire cosa fosse successo. Nessuno usciva. Se lo facevi avevi l’impressione che anche i corridoi fossero più bui. In reparto eravamo tutti bambini o ragazzini. I più grandi avevano 14-15 anni. Quando la normalità riprendeva, scoprivi che alla tal stanza non c’era più l’amico che prima non stava bene. Crescendo ho imparato che la tapparella abbassata era la nostra bandiera a mezz’asta».
Quando hai iniziato a notare un innalzamento dell’età media tra i pazienti?
«Nel 1997 avevo 22 anni, fu allora che in reparto incontrai Claudio, il primo adulto FC che io ricordi. Aveva 33 anni e gli chiesi di vedere la carta d’identità. Gli adulti di ieri sono i vecchi di oggi. Succede il contrario di un tempo: ci sono pochi bambini ricoverati e si vedono soprattutto adulti. È una vittoria. Il mio dottore segue una paziente di 62 anni non trapiantata. Scoprirlo mi ha reso felicissima».
Qualche racconto che definisca lo scenario in cui sei cresciuta e ne mostri la distanza da quello attuale?
«Una volta per tenere pulite le vie aeree dei bambini si facevano le battiture. Passavi per i corridoi del reparto e ne sentivi il rumore. Ora c’è silenzio. La mamma mi ha raccontato che dopo una settimana di mare volle tornare a casa, nonostante avessero pagato l’affitto per un mese, perché non reggeva le chiacchiere della gente. Era già abbastanza provata. Facevamo le battiture con le finestre aperte. Era estate. Quando uscivamo, si percepiva un disagio tra la gente. La guardavano male. “Ma quanti colpi le danno?”, si chiedevano i vicini. Pensavano mi menassero. Oggi i bambini respirano nella pep mask e gli anziani che abitano nella mia via mi chiedono se faccio ancora le terapie, perché non sentono più il rumore a cui erano abituati. Quando spiego che le cure si sono evolute, dicono: “allora le cose sono cambiate! La ricerca è servita”, e si sentono compartecipi di qualcosa che ad oggi è funzionato bene. Si ricordano i pianti della mamma, che non sapeva quanto sarei vissuta. A ogni ricovero mi guardano partire con le lacrime agli occhi e quando torno è una festa per la via».
È cambiata la malattia?
«Ovviamente no. È cambiato l’approccio. Le terapie si sono evolute, sono stati stilati dei protocolli di cura, le conoscenze si sono ampliate. Nel 2000 mi sono accorta che cominciava a cambiare qualcosa perché fino ad allora avevo sempre preso antibiotici per bocca o per vena. Mi venne inserito nelle terapie quotidiane un antinfiammatorio che prima facevo solo al bisogno. Il fatto che fosse entrato nella lista di farmaci base per darmi stabilità polmonare mi dimostrava che avevano imparato qualcosa. Le migliorie nelle cure hanno reso la malattia più invisibile, il che rende complicato raccogliere fondi, ma chi è malato si sente meno discriminato. Naturalmente il fatto che la fibrosi cistica non si veda non significa che non venga pesantemente curata, né che sia diventata meno grave».
Conta più la qualità o la quantità di vita?
«Preferirei non dovere scegliere, ad ogni modo è come vivi che fa la differenza e se nasci con la fibrosi cistica la qualità di vita te la guadagni con le unghie e con i denti».
C’è qualcosa nella malattia altrui che ti disturba?
«Oggi mi fa male vedere due cose: la magrezza, che non è più quella di un tempo, ma comunque un segnale di allarme, e i bambini piccoli, paffuti e bellissimi, a cui è appena stata fatta diagnosi. So cosa dovranno passare e il solo pensiero mi fa piangere. Li aspetta una vita molto complicata. È una vita scadenzata e regolarizzata dalle cure la nostra. Pena il ricovero. Ti puoi concedere una riduzione dell’impegno occasionale, ma ti devi curare tutti i giorni e per curarti ti stanchi. Servono costanza e volontà».
La ricerca cosa ha rappresentato per te?
Tempo. Mi ha permesso di vivere le mie speranze e di realizzare qualche sogno. Ho guadagnato anni di vita grazie alla ricerca. Continuo a vivere tutto come se domani fosse l’ultimo, per la presenza di un limite oggettivo: un’aspettativa media di vita dimezzata rispetto alla popolazione sana, ma pensare che i ragazzi e i bambini che nascono ora hanno una prospettiva diversa dalla mia mi basta. Oggi ti puoi permettere di avere dei sogni. Una volta no. Loro vivono i risultati che io ho aspettato. Negli ultimi anni è stata impressa un’accelerazione alla ricerca sulla fibrosi cistica. Vivono il fervore delle continue scoperte. Quel fervore della ricerca, una volta, era di per sé un sogno. Allora si viveva lo sconforto del non-c’è-niente. Si brancolava nel buio. Non c’era nemmeno l’informazione. Oggi lo sconforto è la delusione perché nemmeno-questa-è-andata. C’è una bella differenza! So che la soluzione arriverà e non ci metterà 40 anni. Prima non lo sapevano. Ora lo hanno capito. Domani arriveranno a qualcosa di nuovo. La tangibilità della ricerca è la mia autonomia e quella di chi mi sta intorno. Una volta dipendevo dagli altri. Nella mia testa sarei morta prima dei miei genitori, anche se il ciclo naturale della vita vorrebbe che i genitori non seppellissero i figli. Potermi prendere cura di loro nella vecchiaia non credevo sarebbe mai successo, ma è così ed è un magnifico traguardo».
Credi che i tuoi sogni fossero diversi da quelli dei ragazzi di oggi?
«Tutti sognavamo l’amore, ma c’era la consapevolezza che i sogni sarebbero rimasti sogni. Quelli che avevamo erano più a breve termine e concreti. C’era paura del futuro. I miei erano sogni calmierati, realizzabili. La ricerca ha ampliato l’orizzonte del sogno e delle possibilità».
Cos’è fondamentale che la gente sappia?
«Dovremmo riuscire a diffondere l’informazione che un italiano su 25 è portatore sano di fibrosi cistica e che esistono gli esami per scoprirlo. Il portatore sano è sano, ma può generare un figlio malato. Il bimbo che nasce con la fibrosi cistica avrà una vita complicata nonostante i progressi della ricerca».
Sei pioniera tra i testimonial della Fondazione. Qual è stato l’intervento più difficile?
Il primo che ho tenuto, oramai tanti anni fa, di fronte a circa 700 ragazzi del liceo. Un professore di filosofia chiese se a fronte della fibrosi cistica avrei preferito essere stata abortita. I ragazzi lo fischiarono. Io mi sentii gelare. Ho bevuto, mi sono ricomposta, ho guardato Lorenzo (mio marito) e ho risposto. “Non sarò mai io a togliermi la vita, perché ormai sono qui e combatto fino alla fine, ma due cose: quando sarò alla fine vorrei che fosse staccata la spina e, sì, avessi scelto io non sarei qui ora. Per quanto mi vediate come una trentenne relativamente in forma, senza i problemi di cui ho parlato, perché la mia forma di malattia è meno grave, ci sono bambini che muoiono di fibrosi cistica, inoltre, della mia quotidianità farei volentieri a meno… E sto ancora bene. Ho lasciato da parte l’idea di un figlio perché, vivendo la malattia, per me è inconcepibile anche solo la possibilità di mettere al mondo qualcuno che possa vivere la mia stessa esperienza. Nelle situazioni bisogna trovarcisi per poterle giudicare”. È seguito uno scroscio di applausi».
La Fondazione ha compiuto vent’anni. Qual è il tuo augurio di buon compleanno?
«Ho iniziato a portare la mia testimonianza quando la ricerca aveva già raggiunto buoni traguardi. Allora non potevo ancora raccontare l’arrivo dei farmaci specifici per determinate mutazioni. Oggi posso dire che i soldi dei precedenti donatori hanno dato risultati concreti. È più la strada fatta di quella che resta da fare. Cerchiamo di percorrerla di corsa».