È alto Roberto, ha una struttura fisica importante, che vicino a quella giunchiforme di Marcia, la sua compagna da sempre, acquista un rafforzativo. Il breve tragitto in auto basta per scoprire la vivacità della sua curiosità, che un’apparenza di orsetto dagli occhi dipinti tradisce. Niente sfugge a quello sguardo grigio e vellutato che tutto osserva, impara e trasforma. A sviluppare il suo spirito da Palomar hanno di certo contribuito i lavori più diversi che si è ingegnato d’imparare: a fianco del padre in una carpenteria metallica, il militare, il venditore porta a porta di vaporetti, il fattorino, nella torrefazione e dal 2001 in una multinazionale di packaging.
Roberto nutre interesse per ogni cosa; conosce a memoria la storia industriale di Lainate e della Perfetti; mentre ancora respiro l’odore di caramella che si sparge nell’aria quando lavano le vasche, lui è già altrove, lungo il sentiero dei suoi ricordi: «a tredici anni ho perso la mamma. A ventitrè il papà. Sono rimasto a dovermi gestire la vita da solo. Ero uno spendaccione. Non mi controllavo». Quindi introduce Marcia come termine di paragone: «la fibrosi cistica è una malattia che ti porta a doverti arrangiare. Conta molto quello che fai tu. Lei era più matura rispetto all’età che aveva. Mi ha aiutato a mettere ordine nella vita (ogni minimo problema doveva restare tale), attribuire il giusto peso, distinguere i problemi più grossi e dare le precedenze. Da ventenne orfano era abbastanza incasinato».
Lui e Marcia si sono incontrati quando lei «stava semibene. Non portava l’ossigeno». La conoscenza con la fibrosi cistica è venuta dopo: prima nel racconto di Marcia, quindi nella vita di tutti i giorni con lei. Roberto suonava il campanello e restava dei lunghissimi minuti in attesa che gli aprissero. Ascoltava il trambusto oltre la porta, ma non faceva domande – era Marcia che nascondeva le bombole d’ossigeno. Notava «un cerotto qua un cerotto là», ma non diceva niente – erano i lividi che Marcia si procurava durante i cicli di antibiotico a casa. Vedeva una magrezza che era più una trasparenza e sentiva aumentare il mistero, ma i dubbi li teneva per gli amici, che «ipotizzavano di tutto». A lei non domandava nulla. Allora non gli aveva ancora parlato della malattia. Aspettava lo facesse da sé, perché qualcosa d’insolito c’era, ma a lui bastava guardare quello che succedeva. «Sono uno che osserva – dice. Una pausa e aggiunge: «ho iniziato a pazientare di più».
Marcia, in fine, si confidò. Da allora, prosegue Roberto, «la scoperta è stata giorno per giorno: accompagnandola al day hospital, al ricovero; guardando soprattutto, consapevole del fatto che era una situazione in continua evoluzione, in salita e in discesa». Roberto ha tenuto gli occhi bene aperti prima di formulare l’assioma da cui fa discendere tutti i corollari: «aspetto che lei m’indirizzi. Vedo, cerco di capire cos’ha, il perché delle cose, cosa può esserle utile e cosa no e attendo l’input. Lei sa cosa fare in qualsiasi situazione. Io le do il supporto pratico. Sono sempre pronto a fianco a lei per reagire se non dovesse fare in tempo».
Come quella volta in cui stavano viaggiando per la campagna varesina, quando Marcia ha detto: «“sto andando in ipoglicemia. Cercami qualcosa di dolce”. E intanto faceva gesti strani – racconta Roberto mimandoli. «Non era mai capitato prima. Impanicato, sono entrato in una latteria stile anni Cinquanta, dove c’erano i vecchietti che giocavano a carte e fumavano. In quell’occasione ho iniziato a capire il problema del diabete». Quindi conclude: «ecco come mi sono ritrovato in questo mondo fatto d’infermieri e di medici, che poi hanno sempre le stesse facce e diventano famigliari; sui quali sai di poter fare affidamento e che t’infondono il senso di dover vivere giorno per giorno a qualsiasi costo». Lo fai perché «ogni volta ti senti più partecipe» e perché la ricerca avanza, trova qualcosa di nuovo. Ricordo quando la dottoressa Borgo disse: «finalmente siamo al di là della curva e vediamo l’arrivo». Basta pazientare.
Certo, «è molto difficile entrare a pieno nella malattia; lo è anche accettare di continuare a privarsi di cose normali come andare a scuola o lavorare, perché la terapia occupa la giornata. Non nascondo il fatto che in gioventù, la sera, andavo da lei e poi uscivo con i miei amici per la sensazione di dover vivere anche la mia vita. Il malato, però, è consapevole che tu non debba sacrificare completamente la tua vita per lui. Cercavo di dare i giusti spazi, dividere le cose, vivere giorno per giorno guardando al lato positivo, poi, quando è rimasta una sola via, Marcia l’ha presa. I due anni in attesa del trapianto sono stati un periodo che non molti possono…» Roberto lascia la frase in levare. Gli si perde lo sguardo. «Devi essere sempre reperibile, perché se arrivasse quella chiamata…». Ancora, il discorso resta sospeso. Poi riprende: «quei due anni li hai passati pensandoci ma anche cercando di non pensarci. La parte dura c’è, ma si tenta sempre di non raccontarla. Devi saper reagire perché se no…». Questa volta non prosegue.
Per qualche istante ho la sensazione che Roberto abbia scordato di non essere lui ad avere la fibrosi cistica, invece lo sa, eccome: «il fatto che le cose potrebbero andare in peggio non mi spaventa. È diventata anche parte di me questa malattia, volontariamente o involontariamente. In realtà, credo che la sensazione di malattia svanisca col passare del tempo. Non penso alla malattia, ma alla mia vita con Marcia che è fatta così. Il trapianto ha ripagato tutti i sacrifici che ha fatto. Prima le ha ritornato quello che aveva perso nell’adolescenza, poi le ha permesso di trovare una stabilità, avere la propria casa, farsi una vacanza, vivere di più la vita semplice, sempre con l’attenzione a doversi salvaguardare, perché Marcia è consapevole che il trapianto non risolve definitivamente le cose, ma si gode a pieno i benefici».
Che Roberto fosse un generoso era parso chiaro fin da subito, ma non basta a evitargli la domanda. Desidererà pur qualcosa per se stesso. «Da quando ho conosciuto Marcia, il filo della vita è stato di cercare di mettere le basi (per quello che si può), perché le cose siano sempre così. Sì, è una malattia debilitante. Non c’è una cura. Non si guarisce, ma adesso io ci sono. Cerchiamo di pensare di più adesso. Io e Marcia non facciamo mai programmi di anni. La malattia è imprevedibile. Pensiamo sempre a oggi. Funziona e non ci manca proprio niente. Viviamo la nostra vita giorno per giorno e ci basta. Ne vorremmo di più, ma viviamo ogni giorno cercando di farcela bastare».
Roberto è un uomo innamorato, non un poeta. Per questo, nel finale, ruberà la penna a John Keats, e per Marcia, moderna Fanny Brawne, vergherà queste poche parole: “vorrei che fossimo farfalle e vivessimo tre soli giorni d’estate – tre giorni così, con te, sarebbero più colmi di delizie di quante ne potrebbero contenere cinquant’anni di vita ordinaria”. Così è, ma vorremmo fosse diverso. Per questo lavoriamo ogni giorno perché lo sia.