Francesca vive nella campagna di Altamura, una cittadina in provincia di Bari. Lei ha una piccola attività di tappezzeria, se la cava molto bene con i lavori di riparazione e di rinnovo di mobili. Il marito possiede un’azienda agricola.
La loro è una famiglia numerosa: tanti zii, tante zie, altrettanti nipoti.
Dodici anni fa la famiglia di Francesca si allarga ancora un po’, con l’arrivo di Elisabetta, e, sette anni dopo, con la piccola Antonelia.
Quando nasce Antonelia, Francesca, con quell’istinto ancestrale di mamma, sente subito che c’è qualcosa che non va. Lo dice al marito che le risponde prontamente, con dolcezza; “Ma no, che dici, finalmente siamo una famiglia al completo”. Ma Francesca insiste: “Ti dico che la bambina ha qualcosa che non va”.
Come arriva la diagnosi?
Antonelia è stata la secondogenita desiderata più di ogni altra cosa, anche perché è arrivata dopo due aborti spontanei. La gravidanza di Antonelia è andata benissimo e lei è nata con un parto cesareo. Dopo una settimana la portiamo dal pediatra per il controllo del peso e riscontriamo un calo di 250 g che, inizialmente, ci dicono essere normale. Io la vedevo tanto piccola, troppo, e sentivo che c’era qualcosa che non andava. Dopo circa 15 giorni mio marito riceve una chiamata da un medico genetista che gli comunica che lo screening neonatale ha dato esito positivo per la fibrosi cistica.
Conosceva la malattia?
Dopo due aborti spontanei e due gravidanze, esami medici di routine e anche più approfonditi di quelli che affronta una coppia normale, nessun medico mi aveva mai parlato di fibrosi cistica. Io l’avevo sentita nominare, ma non la conoscevo affatto. Non ero sicura di quali fossero i sintomi, le cause. Guardavo Antonelia, una neonata bellissima, e mi chiedevo, confusa, che cosa non andasse: non riuscivo a dare dei contorni e capire la gravità.
Dopo la telefonata vi convocarono in ospedale.
Era l’8 aprile, ricordo ancora il giorno. Si avvicinava la Pasqua e questo periodo dell’anno per me, tuttora, è davvero brutto perché mi fa rivivere l’angoscia di quei giorni.
Ricordo che c’erano cinque bambini, con i loro genitori, in attesa, prima di noi. Arriva il nostro turno e nella stanza ci sono il primario, la psicologa, altre dottoresse. Ci comunicano che io e mio marito siamo portatori sani di fibrosi cistica e che la bimba è positiva al test del sudore. Io ho un ricordo così confuso di quel momento, ma se chiudo gli occhi li sento ancora oggi ripetere: “Non si preoccupi. Ci sono ottime prospettive di vita.”.
A chi si è rivolta subito dopo?
Chiamai il nostro pediatra che aveva conosciuto bene la fibrosi cistica, avendo seguito un piccolo paziente, mancato a 8 anni a causa della malattia. Mi disse che era in corso uno studio scientifico molto promettente e che presto sarebbero arrivati i primi farmaci modulatori in grado di migliorare la vita dei malati.
Iniziammo subito, a pochi mesi, con le terapie: aerosol, pep mask, enzimi pancreatici. E dopo poco arrivarono anche i primi ricoveri.
Come sono stati i primi mesi dopo la diagnosi?
Io ho vissuto la diagnosi di fibrosi cistica di Antonelia come un lutto. Ho avuto molta paura e mi sono chiusa in me stessa. Mi sono rivolta anche ad un altro Centro, nella cieca speranza che il primo si fosse sbagliato.
Mi vergognavo della malattia: fuggivo dalle domande, evitavo di dare spiegazioni. Poi, un giorno, durante l’ultimo ricovero al Policlinico di Bari, è scattato in me qualcosa: “Devi rialzarti, uscire da questo malessere”, mi sono detta. Cercai aiuto, altre voci, e mi consigliarono il Centro FC all’Ospedale G.Tatarella di Cerignola e, conoscendo la responsabile, la dott.ssa Pamela Vitullo, sono cambiata anche io.
In cosa è stata diversa, la dottoressa Vitullo?
La relazione medico-paziente e medico-famiglia è davvero importante in una malattia cronica come la fibrosi cistica. Io, da mamma, mi affido ai medici, alla medicina, alla ricerca e ho bisogno di sentirmi accolta, capita, incoraggiata, sorretta. La dottoressa ci disse che dovevamo stare tranquilli e che dovevamo impegnarci affinché Antonelia conducesse una vita che fosse il più normale possibile. E io la ascoltai. Da quel momento iniziai a parlare di fibrosi cistica, del test del portatore sano, a raccontare di Antonelia, che nel frattempo aveva iniziato ad assumere Orkambi (il primo modulatore composto della proteina CFTR, ndr) dei ricoveri, dell’inappetenza, di quando la malattia diventava più aggressiva. Non avevo più paura perché non mi sentivo più da sola.
È stata quasi una precorritrice della campagna “1 su 30 e non lo sai” per sensibilizzare sul test del portatore”.
Ho costretto i miei parenti a fare il test del portatore; lo faccio con tutti, a dire la verità. La figlia di mia cugina è portatrice sana e l’ha scoperto proprio perché le ho consigliato di fare il test: questa cosa mi dà molta soddisfazione. Io sono felice di avere avuto Antonelia perché mi ha permesso di scoprire il mondo del volontariato, della ricerca, di conoscere tante persone nuove e splendide che altrimenti non avrebbero incrociato la mia strada. Sono una persona migliore perché sono meno severa con me stessa e con gli altri, do valore alla vita, alla famiglia, alle cose di tutti i giorni. Ma sì, avrei voluto che qualcuno mi parlasse della fibrosi cistica prima delle gravidanze.
Come sta oggi Antonelia?
Nel 2023 Antonelia ha iniziato ad assumere il Kaftrio (il modulatore attualmente più efficace sul mercato su determinate mutazioni, ndr), in uso compassionevole, ma i valori epatici si sono sballati. Così al Centro ci hanno consigliato di ridurre il farmaco a mezza dose. Antonelia mangia di più, ha ridotto la pep mask, non fa ricoveri da più di un anno ed è più serena. Tutto ciò mi ha dato ancora più voglia di vivere. E lo devo alla ricerca. Voglio precisare che la malattia c’è ancora. Antonelia si sveglia prestissimo tutte le mattine per prendere le medicine con un’autonomia commovente, perché sente che la fanno stare bene. Ricorda alle maestre i suoi enzimi, quando è l’ora del pasto, si lava spesso le mani e sa che è meglio evitare luoghi affollati. Conduce una vita il più simile possibile a quella di ogni altro bambino di 6 anni, ma con tantissimi accorgimenti.
E Elisabetta, la figlia più grande?
Sta bene anche lei. Abbiamo cercato di non farle pesare la malattia di sua sorella, prendendoci sulle spalle il fardello più grande.
Nonostante le lacrime di fatica, di preoccupazione, di stanchezza siano state tante, non sono mai scese davanti alle mie figlie.
Come ha conosciuto Fondazione?
Mi sono avvicinata al volontariato grazie a Giuseppe Tota, un malato adulto di fibrosi cistica. Gli ho raccontato la mia storia e lui si è aperto con me. Da quel momento ho scoperto quanto possono essere preziosi la condivisione, il confronto, l’aiuto reciproco, e non ho più smesso di prestarmi per fare sensibilizzazione, raccontare la nostra storia per combattere l’ignoranza altrui ed esorcizzare le mie preoccupazioni. Ora so che più se ne parla meglio è, perché la fibrosi cistica deve diventare davvero una malattia che non fa più paura. Con la campagna “1 su 30 e non lo sai” sento di poter fare la mia parte con ancor più forza di prima, perché mi sento sorretta dall’autorevolezza di Fondazione: voglio coinvolgere e mobilitare quante più persone possibili affinché ogni futuro genitore possa fare una scelta di famiglia informata e consapevole.