Il trapianto bipolmonare rimane in fibrosi cistica un’arma irrinunciabile ed efficace per affrontare la condizione d’insufficienza respiratoria grave che non risponde più alla terapia medica. Tuttavia, per la scarsità di organi disponibili, c’è ancora un’alta percentuale di pazienti che non riesce ad arrivare al trapianto e, quindi, molto si continua a discutere sulle caratteristiche cliniche del paziente nella fase pre-trapianto, come pure di eventuali controindicazioni all’iscrizione in lista d’attesa. Tra queste, una delle condizioni più dibattute continua a essere la presenza cronica nelle vie aeree di germi resistenti agli antibiotici, proprio perché in molti Centri Trapianto i pazienti portatori di questi germi non sono accettati come candidati al trapianto.
Con lo scopo di far luce su questo importante argomento, gli autori di un recente studio (1), ricercatori referenti alle Università di San Diego in California, Oslo in Norvegia e Zurigo in Svizzera, hanno studiato i dati del Registro della Società Internazionale dei Trapianti di Cuore e Polmoni (ISHLT), che raccoglie le informazioni inviate da 345 Centri di varie nazioni, pari al 75% di tutta l’attività trapiantologica internazionale. Dal numero complessivo dei pazienti trapiantati di cuore/polmoni o di polmoni, per varie patologie presenti nel registro (oltre 57.000, che presentano una sopravvivenza media post-trapianto pari a 9,2 anni), sono stati estratti i trapiantati di polmone per fibrosi cistica: 3.526 soggetti (23% del totale), sottoposti all’intervento nel periodo gennaio 1991 – dicembre 2015. I pazienti arruolati sono stati divisi in due gruppi, sulla base della colonizzazione cronica delle vie aeree prima del trapianto: colonizzazione da germi pan-resistenti agli antibiotici (Gruppo A) e non colonizzazione (Gruppo B). La definizione di pan-resistenza era stata attribuita dal singolo Centro Trapianti (purtoppo mancano i dettagli su tale definizione).
In entrambi i gruppi è stata indagata la sopravvivenza a 90 giorni, a un anno e a tre anni dal trapianto. È stata inoltre studiata la presenza di un problema infettivo (termine comprensivo di vari tipi d’infezione, dalla polmonite batterica a quella virale o fungina e anche del quadro generalizzato di setticemia) come causa di mortalità a 90 giorni e a un anno dall’intervento chirurgico. Per tutti i pazienti sono stati raccolti i dati clinici caratterizzanti al momento del trapianto: età, sesso, stato nutrizionale (BMI), funzionalità respiratoria (FEV1), anticorpi positivi per CMV (Citomegavirus), concentrazione di CO2 nel sangue, diabete mellito, necessità di terapia cortisonica, di ossigeno a riposo, di ventilazione assistita, di tracheostomia o di terapia dialitica. Inoltre, la frequenza, nell’ultimo anno e nelle ultime due settimane prima del trapianto, di infezioni con necessità di terapia antibiotica per via endovenosa e di ospedalizzazioni. Infine, i dati riguardanti procedure rianimatorie vitali (life support) prima dell’intervento, procedure concernenti l’intervento chirurgico e caratteristiche cliniche riferite al donatore, oltre che il tempo intercorso tra prelievo dell’organo e impianto nel ricevente (cold ischemia time).
Il gruppo A è risultato composto da 607 pazienti e il gruppo B da 2.649 pazienti. Lo studio ha mostrato che i pazienti del gruppo A al momento del trapianto erano in condizioni complessivamente peggiori, secondo quasi tutti i parametri considerati, soprattutto quelli riferibili alla necessità di dialisi, al grado di insufficienza respiratoria e alla gravità della condizione infettiva in atto. Inoltre i donatori degli organi del gruppo A erano più vecchi e il tempo di cold ischemia era stato più lungo. Tuttavia, la mortalità a 90 giorni, a un anno e a tre anni dal trapianto non differiva significativamente tra il gruppo A e il gruppo B (7,92% vs 6,49% a 90 giorni, 18,6% vs 16% a un anno, 44,7% vs 41,3% a 3 anni).
Analizzando le cause della mortalità, è emerso che era in gioco un problema infettivo più frequentemente nel gruppo A rispetto al gruppo B. Questo dato, però, alla luce di tutti gli altri fattori considerati, che erano penalizzanti per il gruppo A già nel periodo pre-trapianto, è stato ulteriormente analizzato e orienta a dire che non è la presenza di questi batteri a provocare maggiori problemi nel post-trapianto, bensì il fatto che i pazienti portatori di tali germi sono, di partenza, più fragili, com’è dimostrato da un maggior tasso di infezioni polmonari e da una maggiore necessità di ossigeno e procedure ventilatorie nel periodo pre-trapianto. A questo va aggiunto, che i pazienti del gruppo A hanno ricevuto organi sottoposti a una più prolungata cold time ischemia, a sua volta possibile causa di maggior danneggiamento dell’organo trapiantato. Come gli autori stessi dichiarano, il limite di questo lavoro è rappresentato dal fatto che non è stato possibile chiarire quali siano stati i germi definiti dal singolo Centro pan-resistenti, impedendo quindi di capire se esiste un germe più critico di altri, come ad esempio è stato più volte ipotizzato per alcuni tipi di Burkholderia cepacia.
Di fatto, comunque, il messaggio importante di questo lavoro, suffragato dal numero imponente di soggetti considerati nell’elaborazione dei dati, è che il trapianto in paziente portatore di germi pan-resistenti ha un risultato sostanzialmente simile a quello dei pazienti che albergano nelle vie aeree germi più facilmente aggredibili dagli antibiotici. Forse, sulla base dei dati raccolti, potrebbe invece essere ipotizzato che l’iscrizione in lista d’attesa nei pazienti con germi pan-resistenti, dovrebbe essere anticipata rispetto agli altri, permettendo a questi pazienti di giungere all’intervento in condizioni migliori.
1) Lay C, Law N, Holm AM, Benden C, Aslam S. “Outcomes in cystic fibrosis lung transplant recipients infected with organisms labeled as pan-resistant: An ISHLT Registry‒based analysis”. J Heart Lung Transplant 2019 Jan 25. pii: S1053-2498(19)31336-1. doi: 10.1016/j.healun.2019.01.1306. [Epub ahead of print]