Il grande numero di mutazioni che il gene CFTR contiene ( fino ad oggi ne sono state identificate più di 1400) è uno degli ostacoli che si frappongono alla realizzazione di uno screening del portatore FC nella popolazione generale. Per poter dare a chi si sottopone al test una risposta chiara e sicura, cioè “portatore” o “non portatore”, bisognerebbe avere una tecnica che in una sola volta identificasse un numero elevato di mutazioni. Solo in questo modo chi fosse diagnosticato “non portatore” avrebbe una buona sicurezza di non esserlo davvero. Con le tecniche fino ad oggi disponibili questa sicurezza non c’è. I test attualmente usati nella maggioranza dei casi in Italia identificano un pannello di 20 -30 mutazioni circa. Ma la tecnica in questo campo progredisce con grande velocità: un gruppo di ricercatori dell’università di Stanford, California, ha messo a punto uno strumento tecnico che permette di indagare contemporaneamente la presenza di oltre 200 mutazioni(1). Si tratta di un “microarray”, che è detto robusto, capace di assicurare un ottimo rapporto fra costo e risultati, facilmente modificabile a seconda che la popolazione da testare richiedesse mutazioni diverse da quelle inserite nel modello proposto.
Ma che cos’è esattamente un DNA-microarray (o DNA-chip, come altre volte è chiamato)? La prima segnalazione della sua messa a punto è stata data dalla rivista “Science” nel 1995. Da allora è stato un susseguirsi d’applicazioni in campo genetico. Per fare alcuni esempi, oggi sono usati microarrays per studiare i geni che distinguono le cellule dei tumori da quelle sane, quelli che rendono un individuo più suscettibile di un altro alle malattie cardiovascolari e quelli che determinano la variabilità individuale della risposta ai farmaci. Microarrays sono usati nel campo della medicina forense: le famose analisi del DNA che s’inseriscono nella cronaca delle vicende giudiziare.
L’American Heritage Dictionary definisce il verbo ” to array” come ” mettere in una disposizione particolare” una serie di cose. Il “DNA microarray” è un supporto solido sul quale sono fissate in maniera ordinata un certo numero di frammenti (=sequenze) di DNA, invisibili ad occhio nudo. Le dimensioni del supporto sono in genere molto contenute, come quelle del dito mignolo della mano. Il supporto può essere un frammento di vetro particolare (simile ai vetrini per l’osservazione al microscopio), oppure una membrana di nylon, oppure un “chip” (= frammento) di silicio, del tipo di quelli usati nella moderna tecnologia informatica. Ad ogni posizione del supporto corrisponde una certa sequenza di DNA, come potrebbe essere la sequenza di una certa mutazione del gene CFTR.
Il DNA della persona che si sottopone al test viene frammentato in sequenze di varia lunghezza e “marcato” con sostanze fluorescenti colorate; a questo punto è messo a contatto con il microarray che contiene le sequenze di DNA “complementare” (= capaci cioè di legarsi al DNA in esame). I marcatori fluorescenti del DNA del soggetto sono resi visibili da un apparecchio laser e uno speciale microscopio lavora insieme con una macchina fotografica per creare un’immagine digitale (= immagine di punti) dell'”array”. La posizione in cui il DNA del soggetto si “complementa” con il DNA del microarray sarà segnalata dalla presenza sul microarray stesso di un particolare colore in una particolare posizione.
L’immagine fotografica viene trasferita ad un computer, dove uno speciale programma analizza i punti colorati in cui è avvenuta la reazione e quindi identifica la sequenza di DNA in questione: si può così attribuire alla reazione il significato che riveste, a seconda del tipo di DNA-array usato. I vantaggi dell’intera procedura sono il grande numero di sequenze di DNA esaminabili contemporaneamente e la possibilità di accumulare ed elaborare le informazioni attraverso computer. In questo modo sono nate le “maxibanche” che hanno permesso di raccogliere le informazioni sull’intero genoma umano.
Il microarray dei ricercatori californiani non è ancora uscito dal laboratorio in cui è stato confezionato e quindi adesso manca la fase della “validazione” pratica (è stato “provato” solo in una cinquantina di malati): non sappiamo cioè che tipo di problemi comporterebbe nella pratica, quale il rischio di errore nelle diagnosi (“falsi” positivi e “falsi” negativi al test).
Inoltre un programma di screening del portatore FC dovrebbe mettere in conto di affrontare una serie di altre difficoltà, soprattutto in Italia dove la FC è poco conosciuta e non è chiaro chi e come potrebbe offrire il test. Ma resta il fatto che uno dei maggiori ostacoli alla sua realizzazione e cioè la possibilità di disporre di uno strumento tecnicamente adeguato è destinata a cadere, in tempi abbastanza vicini.
Schrijver I, Oitmaa E, Metspalu A, Gardner P.
“Genotyping Microarray for the Detection of More than 200 CFTR Mutations in Ethnically Diverse Populations.” J Mol Diagn 2005, 7(3):375-87.