Nello stato di Victoria in Australia opera un gruppo di clinici e ricercatori molto attivo nel campo dello screening FC, sia lo screening della malattia a livello neonatale che lo screening del portatore. Anche in Australia, come in quasi tutta l’Italia, questo secondo è raccomandato e gratuito peri i parenti delle famiglie in cui c’è un soggetto malato (mentre è su base volontaria e non rimborsato dal servizio sanitario se lo chiede un soggetto qualsiasi della popolazione generale). Lo screening del portatore, che parte da un soggetto “indice” diagnosticato malato e si allarga ai parenti diretti di vario grado (fino ai secondi cugini, oltre i quali il rischio di essere portatore è vicino a quello del soggetto della popolazione generale), viene chiamato ” a cascata”.
Si potrebbe ipotizzare che un momento ideale per l’applicazione di questo screening sia quando viene fatta una nuova diagnosi di malattia attraverso lo screening neonatale. Una precedente ricerca dello stesso gruppo ha però dimostrato che solo un numero molto modesto di parenti di bambini diagnosticati attraverso screening neonatale, benché informati e benché in età da avere figli, viene a fare il test (11.8% di quelli identificati come possibili candidati al test in base all”albero genealogico) (1).
Scopo di questo nuova ricerca (2) è capire perché questo numero così basso di accesso al test. Vi partecipano 30 coppie di genitori con bambini diagnosticati FC attraverso screening neonatale al Royal Children Hospital di Melbourne. Questi 60 genitori forniscono gli indirizzi, previo consenso degli interessati, di 284 parenti (circa 4 indirizzi per genitore), a cui viene inviato un questionario che indaga il livello di conoscenza della malattia FC, l’attitudine al test e i fattori che influenzano la decisone di farlo o non farlo. Rispondono 255(79%).
Hanno già fatto il test in 83 di loro (32%), e sono soprattutto zie e nonne. Per quanto riguarda le ragioni che spingono a fare il test: la voglia di sapere, per sé e per gli altri (informazione da “trasmettere” ), il desiderio di avere figli e di prevenire in loro la malattia, la volontà d’essere d’aiuto alla ricerca. Spingono invece a non farlo: il fatto di avere già figli, di non aver mai sentito parlare di una malattia simile, la voglia di rimandare di sapere, il timore che il test sia costoso e poco accessibile, la paura del senso di colpa in caso di risultato positivo.
Forse ancora più interessanti le risposte dei genitori ad un altro questionario mirato a conoscere le difficoltà legate alla trasmissione di informazioni ai parenti: i genitori dicono che al momento della diagnosi lo shock è tale che impedisce di capire molto di quello che viene detto; nel parlare con i parenti cercano aiuto e conforto, e la necessità di informarli sul rischio genetico è percepita come “secondaria”; e se i parenti non sono in età da avere figli l’informarli sembra superfluo; non è facile parlare con parenti che non si frequentano e con i quali spesso si condivide molto poco, per cui la disseminazione dell’informazione è disomogenea (non segue il criterio di quale sia il parente a maggior rischio ma quello del parente con cui si ha maggior confidenza); i concetti di genetica sono difficili da spiegare; i parenti sembrano non capire la gravità della malattia (“il bambino sembra stare così bene!!”); e spesso, anche se informati, si dichiarano convinti che “a loro non capiterà”.
Interessante anche il ruolo dei nonni, i quali non sempre sono inclusi nei programmi di screening a cascata: includerli in pratica sarebbe utile per individuare a quale ramo familiare offrire il test genetico, ma i genitori di questa ricerca dicono che offrire il test ai nonni li espone al rischio di farli sentire in colpa e quindi si rivolgono a loro con molta difficoltà.
Suggerimenti pratici che la ricerca offre: lo screening a cascata è un processo, più che un’azione limitata nel tempo. Le informazioni date al momento della diagnosi vanno riprese in momenti successivi; in particolare, per le informazioni genetiche vanno programmate alcune sessioni di richiamo e rinforzo del messaggio a distanza di tempo, perché solo in questo modo i genitori possono diventare recettivi e farsi parte attiva nel processo di trasmissione delle informazioni.
Merita segnalare che un progetto analogo sullo screening a cascata, attuato nel Veneto nella seconda metà degli anni 1990 (3) con una strategia di reclutamento molto attiva, ottenne un maggior successo nell’utilizzo del test da parte del 25% dei parenti dei malati.
1) Belinda J McLaren et all”Uptake of carrier testing in families after cystic fibrosis diagnosis through newborn screening” Eur J Hum Gnet 2010; 18 (10):1084-89
2) Belinda J McLaren et all “Cascade carrier testing after a child is diagnosed with cystic fibrosis through newborn screening : investigating why most relatives do not have testing ” Genetics in Medicine, online publication 24 January 2013
3) Borgo G, Castellani C, Bonizzato A, Rolfini R, Altieri S, Zanolla L, Mastella G. Carrier testing program in a high-risk cystic fibrosis population from northeastern Italy. Active recruitment of relatives via probands’ parents. Community Genet. 1999;2(2-3):82-90.