Forse si potrà sapere semplicemente con un prelievo di sangue materno se il feto è sano o affetto da FC.
Attualmente le coppie che hanno un figlio con malattia FC possono, nell’eventualità di un’altra gravidanza, ricorrere alla diagnosi prenatale attraverso villocentesi. Viene cioè prelevato, alla decima settimana di gravidanza, un frammento di placenta e, poiché nella parte fetale della placenta le cellule hanno lo stesso DNA del feto, su queste si esegue la ricerca delle mutazioni del gene CFTR. Il prelievo viene fatto attraverso un breve intervento, per il quale non occorre ricovero ospedaliero, con un ago attraverso l’utero, sotto controllo ecografico. Si dice in termini medici che è un’indagine “invasiva”, intendendo con questo che essa ha un certo grado, seppure molto contenuto, di pericolosità per il feto: c’è il rischio infatti che, seppure eseguito da mani esperte, il prelievo provochi l’interruzione della gravidanza e un aborto successivo. Secondo ricerche condotte su larga scala, questo si verifica in circa il 2% delle villocentesi.
Si stanno cercando metodi meno invasivi di diagnosi prenatale. Tutto è cominciato nel 1997 quando è stata scoperta nel sangue materno la presenza di cellule appartenenti al feto, a partire da un’epoca molto precoce di gravidanza, addirittura dalla settima-ottava settimana. Si è così formulata l’ipotesi di poter fare accertamenti prenatali per anomalie cromosomiche o genetiche analizzando le cellule fetali ottenute attraverso un semplice prelievo di sangue materno. Poichè la circolazione del sangue materno e fetale sono comunicanti, si pensa che queste cellule siano immesse nel sangue materno in quantità crescente a seconda dell’epoca di gravidanza. Sono cellule del sangue fetale (linfociti, cellule eritroidi) o cellule della placenta (chiamate trofoblasti). Volendo realizzare una diagnosi prenatale meno invasiva della villocentesi, ma altrettanto o ancora più precoce, il problema si pone agli inizi della gravidanza, quando queste cellule sono molto poche ed è anche difficile distinguerle da quelle materne. Quindi gli studi si sono rivolti alle modalità di riconoscimento e “arricchimento” delle cellule fetali, con tecniche di coltivazione “in provetta”, in modo da ottenere quantità sufficienti di materiale genetico da analizzare.
La ricerca ha prodotto risultati non soddisfacenti fino agli inizi del 2000, al punto che l’autorevole rivista inglese “The Lancet” pubblicava nel 2003 un editoriale dal titolo provocatorio “Cellule fetali intatte nel sangue materno: ci sono veramente?”(1). Quello che si era visto fino ad allora era che si potevano distinguere con buona certezza le cellule del feto da quelle della madre se il feto era maschio (la presenza del cromosoma Y maschile costituiva un marcatore fondamentale), ma non altrettanto bene se era femmina, perchè si confondevano con quelle della madre. Già di per sé il fatto di poter riconoscere precocemente il sesso del feto costituisce comunque un progresso, perché per esempio alcune malattie genetiche (distrofia muscolare, emofilia) possono essere trasmesse da madri portatrici sane solo ai figli maschi e non alle figlie.
Le cose sembrano essere notevolmente cambiate da quando si è scoperto che nel sangue materno sono presenti non solo cellule fetali ma anche materiale genetico fetale “libero”, probabilmente sotto forma di “vescicole” di DNA derivante da cellule fetali andate incontro ad invecchiamento e disfacimento(2). Questo DNA libero sembra essere più facile da estrarre dal sangue materno per essere analizzato. Proprio su questo DNA libero sono state svolte analisi genetiche per alcune malattie, fra cui la fibrosi cistica(3,4). Il limite della tecnica è ancora quello di poter riconoscere nel DNA fetale presente nel sangue materno solo la mutazione genetica di origine paterna (nei casi pubblicati sono state identificate, rispettivamente alla 13a e 11a settimana di gravidanza, la mutazione paterna Q890X e la mutazione paterna D1152H), perchè quella materna non è distinguibile da quella fetale.
Si tratta quindi di una tecnica da perfezionare ampiamente, ma le varie pubblicazioni scientifiche di recente comparse stanno ad indicare che i ricercatori se ne stanno occupando intensamente e l’impressione è che si possa essere sulla buona strada. Ricordiamo che una ricerca proprio in questo campo, in corso di attuazione presso il Dipartimento di Biochimica e Biologia Molecolare dell’Università di Ferrara (“Strategie innovative per la diagnosi di fibrosi cistica”) è uno dei progetti “adottabili” selezionati nel 2004 dalla Fondazione Ricerca Fibrosi Cistica.
1) Lancet 2003, 36, 139
2) Human Reproduction Update 2005,11,59
3) Prenatal Diagnosis 2002, 22, 946
4) Clinical Chemistry 2004, 50,694