La Società Europea di Genetica Umana ha prodotto un documento che dovrebbe guidare il comportamento dei sanitari implicati nell’esecuzione e nella consulenza dei test genetici nei confronti di soggetti “minori”(1). Il documento descrive i princìpi cui dovrebbe ispirarsi l’uso dei test genetici a quest’età e analizza in dettaglio i vari tipi di test genetici, fra cui quello per la diagnosi dello stato di portatore. Un principio ritenuto fondamentale è che nel minore qualsiasi tipo di test genetico va fatto solo se gli può recare un beneficio: quindi, per esempio, nel caso sia in grado di diagnosticare una malattia sulla quale si può intervenire con cure precoci, il test va fatto, anche se il minore non è in grado di dare un consenso basato sull’informazione (“consenso informato”). Il consenso informato è però un altro principio chiave: prima di sottoporre un minore ad un test genetico, bisogna sempre chiedersi se è in grado di capire le informazioni relative al test, in modo che possa “scegliere” se farlo o non farlo. Se questo non è possibile, perchè il bambino o il ragazzo non hanno la sufficiente maturità, nè i genitori nè i sanitari possono decidere per lui, a meno che, come detto sopra, il test non gli procuri un beneficio diretto (e non rimandabile). Venendo al caso della FC, secondo le raccomandazioni di questa Società Scientifica, è da scoraggiare l’esecuzione, in un minore, del test per sapere se è portatore, poichè non ne ricaverebbe alcun beneficio immediato e non sarebbe in grado di capire le implicazioni del test, che riguardano comunque solo il suo futuro (e non il presente): fare il test del portatore nella partner, utilizzare la diagnosi prenatale, e altre scelte riguardanti la vita riproduttiva.
Vari studi hanno però mostrato che un numero non piccolo di genitori è invece in favore dell’esecuzione del test per il portatore anche nei minori: le ragioni a sostegno di questa posizione sono che in questo modo il bambino si adatterebbe meglio all’idea di essere portatore, evitando il risentimento e l’ansia del saperlo più avanti, magari dopo la scelta della partner. Il problema è delicato e, anche secondo questo documento, un’insistente richiesta dei genitori di eseguire il test andrebbe sempre considerata dai sanitari, per capirne le reali motivazioni. Questo soprattutto nel caso in cui in famiglia ci sia un altro minore malato, oppure ci sia un altro parente già diagnosticato portatore. Potrebbe trattarsi, a volte, anche della decisione, da parte dei genitori, sul quando e come comunicare il risultato di un test già eseguito (per esempio, nel caso in cui il bambino è nato da diagnosi prenatale per FC ed è stato diagnosticato sano, ma portatore) .
Una realtà infatti è che oggi c’è un certo numero di bambini che vengono diagnosticati alla nascita portatori sani di FC. Oltre a quelli nati da diagnosi prenatale per FC, ci sono quelli che vengono sottoposti a screening neonatale per la malattia e risultano portatori. Lo screening neonatale per FC viene abitualmente realizzato attraverso un primo accertamento biochimico (il dosaggio dell’immunotripsinogeno reattivo IRT in una goccia di sangue essiccato del neonato). I casi IRT “positivi” sono un’esigua minoranza (0.5-1%) della popolazione totale screenata attraverso il test biochimico e rappresentano una fascia di popolazione a più alto rischio di FC. Poichè l’IRT risulta elevato nei primi mesi di vita negli affetti da FC, ma anche in alcuni neonati sani, per migliorare la specificità dello screening questi stessi vengono sottoposti ad analisi genetica. La presenza di due mutazioni del gene CFTR consente di porre diagnosi di malattia, mentre qualora se ne individui una sola sarà decisivo il test del sudore. Quindi, l’analisi genetica porta inevitabilmente all’identificazione di alcuni portatori, riproponendo la problematica dell’applicazione del test in soggetti non consapevoli. I genitori stessi nella maggior parte dei casi non sono stati informati dell’eventualità che lo screening, in casi selezionati, contempli la possibilità dell’esecuzione di un test genetico. E ci sono ricerche che hanno suggerito come la condizione del bambino diagnosticato portatore possa provocare nei genitori ansia, timore di stigmatizzazione, iperprotezione, confusione con lo stato di malattia. Questo soprattutto in assenza di una adeguata offerta di consulenza genetica alle famiglie di portatori individuati. I sanitari (ginecologi, ostetrici, medici di famiglia e pediatri) si interrogano su quali siano le modalità per gestire queste diagnosi di portatore (che non sono “intenzionali” , ma “accidentali” ). Dal momento che il test ha dato un risultato, il sanitario ha il dovere di comunicarlo, non può tenerlo per sè. E considera questa diagnosi un effetto collaterale sfavorevole, ma inevitabile, rispetto ai vantaggi prodotti dallo screening della malattia nell’intera popolazione. (2).
1) Borry P et all “Genetic testing in asymptomatic minors : recommendations of the European Society of Human Genetics” European Journal of Human Genetics 2009;17:720-721
2) Miller FA, Hayeems RZ et all ” Clinical obligations and public health programmes: healthcare provider reasoning about the incidental results of newborn screening” J Med Ethics 2009;35:626-634