Spesso si cerca di essere ottimisti, guardando il bicchiere mezzo pieno. Poi capita per puro caso, dato che i social network ti portano ovunque, di vedere, ad esempio, un ragazzo appena quindicenne con già l’ossigeno. E allora l’ottimismo lascia spazio alla sfiducia e allo scetticismo più totale. Si dice che la nuova generazione di malati FC avrà un destino ben diverso in quanto la ricerca è andata avanti facendo passi da gigante. Ma, allora, come è possibile una situazione simile? In fondo, parliamo di un ragazzo nato solo 15 anni fa. Noi genitori di figli con FC sappiamo bene che i confronti non devono essere fatti. Si cerca di affrontare il tutto con il sorriso, però poi basta una foto per portarti nel mondo reale della fibrosi cistica e nello sconforto più totale.
Di fronte a questi sentimenti di smarrimento, crediamo non serva esibire dati epidemiologici e statistici e che sia corretto confermare che la fibrosi cistica rimane prevalentemente una malattia importante, che peraltro negli anni si è imparato a contrastare progressivamente fino a cambiarne mediamente molte delle connotazioni catastrofiche che l’avevano caratterizzata negli anni passati. Chi sta tentando qui di rispondere a quanto ci scrive un padre sconfortato è stato testimone per 60 e più anni di cosa sia cambiato nel tempo per le persone con questa malattia, grazie alla ricerca, ma anche all’organizzazione delle cure, alla realizzazione sistematica della diagnosi precoce (screening neonatale), alla presa in carico e all’educazione di malati e famigliari da parte dei centri. Negli anni ‘50 e ‘60 chi ne era colpito non sopravviveva oltre i primi mesi o i primi anni di vita. Con il tempo abbiamo cominciato a vedere i bambini crescere, andare a scuola, fino a giungere spesso alla laurea, diventare adolescenti e poi adulti, inserirsi nel lavoro e nella vita sociale, anche costruendosi una propria famiglia. Oggi la fibrosi cistica non è più solo una malattia pediatrica ma è diventata anche e soprattutto una condizione dell’adulto, con cui si può ragionevolmente convivere, con un’attesa media di vita che si allunga ogni anno sempre di più. Nel dire doverosamente tutto questo, non possiamo ignorare che la malattia può far segnare il passo in alcuni casi già nella giovane età, in dipendenza da molti fattori, ma soprattutto dal corredo genetico con cui si nasce: non c’è un unico modo di essere malati di fibrosi cistica. Non si può poi ignorare che la ricerca ci fa vivere oggi una nuova speranza: la maggior parte delle persone malate potranno disporre in un prossimo futuro di farmaci capaci di modificare il difetto che sta alla base della malattia. Alcuni se ne stanno già giovando in misura significativa, anche se avevano già un danno polmonare avanzato, mentre la ricerca sta intensamente lavorando per trovare analoghe soluzioni per quanti non dispongono ancora di terapie mirate al loro specifico corredo genetico. Sappiamo anche che queste terapie saranno tanto più decisive quanto più precocemente somministrate, anche se per le età dell’infanzia bisognerà attendere l’esito di studi clinici indispensabili, in parte già avviati.
Per stare all’oggetto di queste riflessioni, con titolo coniato dal padre che ci scrive, “la doppia faccia della fibrosi cistica”, ci sentiamo di offrire un’ulteriore riflessione, derivata dalla conoscenza di tante persone e famiglie con cui si è condiviso in parte l’esperienza sanitaria e umana di una vita: non è solo la faccia della malattia (che di facce in realtà ne può avere molte) ciò che conta, ma è forse molto di più quella della persona che vive con la malattia e che, accanto ai tratti di patologia, ha molte risorse sane che possono anche sovrastare la malattia stessa, se aiutata in tutti i modi a esprimerle e ad accrescerle fin da bambino. Qui è in gioco la sfida vitale delle persone che hanno avuto in sorte il compito di condurre e supportare il percorso di crescita e di salute di quel bambino.