Mio marito è malato di fibrosi cistica ed è in attesa di un trapianto polmonare. E’ depresso e non so come aiutarlo.
La fibrosi cistica è oggi considerata una malattia dell’adulto ma questo non deve ancora intendersi con un significato di sola cronicità, in quanto essa, seppur spingendosi nell’età adulta, rimane una malattia progressiva e quando la tradizionale terapia farmacologica non è più in grado di controllare le infezioni, dobbiamo, ed oggi fortunatamente possiamo, ricorrere ad un ‘altra scelta terapeutica, il trapianto polmonare.
Questo comporta, però, un momento molto critico nella vita del paziente sia perché sancisce l’aggravarsi in modo irreversibile della malattia sia perché il trapianto rappresenta la necessità di affrontare una moltitudine di delicate variabili, mediche e psicologiche. Il vissuto emotivo che si lega alla decisone di entrare in lista di attesa di trapianto è spesso carico di ambivalenze, il bisogno e il desiderio che si possa fare il trapianto quanto prima, le paure per l’intervento in quanto tale, le ansie per la sua riuscita e per il percorso successivo nonché, frequenti in una prima fase dell’attesa, i sensi di colpa per il donatore.
Durante la lista di attesa, spesso purtroppo non breve, questi vissuti possono modificarsi e quando l’opportunità del trapianto non si concretizza possono subentrare vissuti di angoscia nel pensare e temere che mai si potrà trovare un organo compatibile e arrivare al trapianto. Spesso le persone sviluppano sentimenti di rabbia per quell’opportunità di vita che non riescono a realizzare ma lo stato d’animo di gran lunga più frequente è l’aumentare dello stato ansioso e depressivo, che può spingere le persone in un cerchio sempre più stretto della loro rappresentazione, fino a raggiungere uno stato di depressione manifesta con disinvestimento su aree vitali
Accompagnare un familiare durante l’attesa del trapianto rappresenta perciò un importante carico anche per la famiglia. Per sostenere una persona così fortemente provata da pesanti difficili stati emotivi, dall’ansia all’angoscia e alla tristezza, è importante non proiettare su di essa proprie aspettative o proprie modalità di soluzione ai problemi o alla gestione del quotidiano. Ogni persona è un’entità in quanto tale e spesso rassicurazioni e raccomandazioni rischiano di essere di poco aiuto se non tengono sufficientemente conto della struttura di quella persona e conoscono come è proprio di quella persona l’affrontare i problemi e le situazioni critiche.
E’ importante che la famiglia abbia la capacità di comprendere che la persona ha bisogno di ridefinire il proprio stato e che a tale fine si impari, come persone affettive di riferimento, a rinunciare al nostro desiderio, e forse bisogno, di vedere il nostro caro più sereno, concedendogli, invece, un tempo di adattamento, diverso per ogni soggetto, in cui possano essere compresi anche lo smarrimento e il ritiro. Risulta di scarso aiuto, infatti, sollecitare un sistema, cioè la persona, ad uno sforzo di ruolo e ad azioni e comportamenti che forse ai familiari farebbero piacere perché letti come un momento di benessere ritrovato, come ad esempio uscire o fare attività usualmente fatte e poi interrotte, prima che la modifica di adattamento alla nuova realtà sia veramente compiuta. Cercare, infatti, di forzare le persone in tempi precoci a riprendere o continuare ruoli e attività può essere controproducente, in quanto essi possono, nell’angoscia depressiva, non essere in grado di attivarsi. Quando accade ciò, quando i pazienti si rendono conto che i propri familiari vorrebbero sentirli più sereni e attivi ma essi sono nella impossibilità emotiva di esserlo, sentono di deludere le aspettative e perciò, talvolta, vivono sensi di colpa per il carico che danno alla famiglia, ma può accadere anche che, al contrario, riescano ad accogliere le sollecitazione della famiglia e ad “accontentare” i propri cari ma con un forte vissuto di tristezza e insoddisfazione. Con un forte dispendio di forze emotive che, nell’ottica del sostegno che dobbiamo dare loro, diviene sicuramente controproducente al loro benessere.
E’ altresì importante non proporre loro attività che non appartengono al loro sistema e rispettare per un tempo ragionevole le strategie che esse riescono o desiderano perseguire. Solo in un secondo tempo, quando ad una analisi centrata più sulla persona che non sui nostri desideri per lei, si valuti eccessivo il suo ritiro e la sua paralisi, possono essere inserite richieste che hanno in realtà lo scopo di aiutare il sistema della persona a tentativi di movimento, ma che devono essere, apparentemente, centrate sui bisogni familiari e non presentarsi come richieste di ruolo dirette. Talvolta assistiamo a spinte di ruolo proprio perché le persone riescono a trovare nelle comunicazioni indirette della famiglia lo spazio per alcuni, sebbene marginali, propri ruoli attivi.
Sappiamo bene che l’attesa, specialmente quando le condizioni cliniche degradano velocemente e la chiamata per il trapianto non arriva, ha la capacità di sfiancare l’equilibrio del paziente così come quello dei familiari. E’ perciò importante che ognuno per suo conto continui a muoversi come se quell’attesa non vi fosse, così che al paziente non arrivi il messaggio che tutto il sistema si paralizza a causa di quella condizione che a lui si lega. E’ utile che ogni membro della famiglia riesca per quanto possibile a vivere la propria vita, talvolta svincolandosi dalla persona stessa, talvolta se possibile anche ad essa affidandosi e a non sostituirsi a lei in tutte la attività, per far sì che, pur dilatato nel tempo, il soggetto riesca, dove le condizioni cliniche lo permettono, a ritrovare un margine di costruzione personale e ridefinizione pur nelle mutate condizioni, così come nel caso delle persone che sono inizialmente condizionate dall’uscire con l’ossigeno e nel tempo riescono a vivere questa loro situazione come, anzi, un ulteriore mezzo per preservare al massimo la propria situazione e arrivare all’intervento nelle migliori condizioni possibili.
Riconoscendo quindi che la persona ha bisogno di un suo modo e un suo tempo, all’interno del quale inserisce strategie del tutto personali che, anche se spesso molto difficili da condividere, come ad esempio il silenzio, gli permettono di non sprecare energie emotive superiori a quanto la sua condizione le richiede. Questo pesante confronto può andare avanti mesi, anni e ha la caratteristica di esaurire le risorse di tutti. Nei momenti in cui si percepisca che troppo viene chiesto alla capacità di farvi fronte, può essere utile, sia al paziente che ai suoi familiari, ricorrere al sostegno psicologico e o farmacologico. Questa può e deve essere una via elettiva anche quando il paziente rifiuta un aiuto psicologico. E per la famiglia, oltre alla preoccupazione e all’ansia dell’attesa, si aggiunge la difficoltà di confronto con il malessere psicologico di quel familiare così provato dal senso di un tempo che scorre verso un inesorabile deterioramento della sua condizione clinica.