Leggendo i siti della LIFC, trovo scritto fin dalle prime righe – addirittura in neretto – non dovesse sfuggirci la notizia! – che l’aspettativa di vita dei pazienti FC si aggira sui 40 anni. Vi chiedo perché mettere questa notizia su un sito non scientifico, indirizzato a pazienti e famiglie non competenti clinicamente? Per noi lettori qualsiasi questa affermazione equivale ad una sentenza di morte a quarant’anni.Conseguenze possibili: i pazienti perdono fiducia nel futuro; decidono di interrompere le cure; si sentono imbrogliati dai loro medici che non hanno, giustamente, mai parlato loro in questi termini; viene violato il loro diritto alla privacy sanitaria, perchè chiunque, amici, parenti, compagni, colleghi, superiori, ne deduce che morirai a 40 anni: ti tratta in modo diverso… a volte meglio, a volte peggio! La malattia ha mille diversificazioni e percorsi evolutivi, molti dei quali con cause sconosciute agli stessi specialisti e con esiti clinici sconosciuti. Perchè scrivere questa notizia inutile e scientificamente non corretta (ricordo che anni fa si annunciava una vita media di 30 anni)? Avete pensato a quei poveri pazienti che hanno superato faticosamente i 30 anni e ora si avviano al capestro dei 40?
Chiedo: potete togliere questa inutile e gravemente dannosa, scorretta, informazione da questo sito che ha uno scopo puramente divulgativo?
Di seguito alcune integrazioni fatte alla domanda in secondo tempo.
Avete valutato cosa ne possono pensare i pazienti cui grava sulle spalle, oltre alla malattia e alle cure, anche il peso di questa ‘condanna a morte’ senza appello? Perché questo capisce chi, non medico, legge quelle parole! Come si fa a parlare di aspettativa di vita di pazienti con FC quando la malattia non ha un’unica forma, ma deriva da mutazioni diverse, ciascuna delle quali porta a esiti diversi? I pazienti nati prima del 1990 praticamente non potevano ricevere cure e quindi avranno prospettive di vita ben diverse rispetto ai più giovani; figuriamoci i quarantenni o più, nati negli anni ’60, ‘70, ecc. L’esito della malattia è inoltre condizionato dal tipo di cure ricevute, dalle condizioni fisiche complessive del soggetto, dall’ambiente in cui si vive, ecc. Vi regalo una bella frase: “gli ammalati mi hanno sempre chiesto una parola di speranza che io, come medico, non dovevo rifiutare. La speranza, per l’ammalato, è medicina indispensabile: con la speranza ci si riattacca alla gioia di vivere, si riesce a sorridere anche in mezzo al dolore”. L’ha scritto mio padre, nel 1982. Era un radioterapista, e in mezzo al dolore ha passato la vita.
Rispondiamo a questa domanda ringraziando chi ce la pone perché ci sollecita ad affrontare un argomento molto complesso: naturalmente rispondiamo per quello che riguarda le informazioni riportate dal nostro sito fibrosicisticaricerca.it, che nella sezione “Cos’è la fibrosi cistica” dice:
«La fibrosi cistica è una malattia complessa; severità e tipo di sintomi possono variare anche molto da persona a persona. Fattori differenti, come l’età alla diagnosi e il tipo di mutazioni del gene CFTR, possono influenzarne l’andamento e l’evoluzione. L’organizzazione delle cure e il miglioramento delle terapie, che segue l’evoluzione della ricerca, ha portato un progresso drammatico rispetto agli anni 50, quando un bambino con questa malattia raramente arrivava all’età della scuola. Oggi ci sono più adulti che bambini con fibrosi cistica e studiano, hanno un lavoro, costruiscono una famiglia. Ma sulla durata e sulla qualità della loro vita la malattia incide in maniera significativa. Le statistiche suggeriscono un’aspettativa mediana di vita intorno ai 40 anni: queste previsioni sono in continuo miglioramento grazie ai progressi della ricerca, che di recente ha scoperto farmaci in grado di intervenire su alcuni tipi di mutazione del gene CFTR. Questa nuova via e altre promettenti hanno la prospettiva di bloccare sul nascere la malattia e rendere sempre più efficaci le cure di cui già disponiamo. La ricerca si sta muovendo per far sì che quello che è possibile oggi per un ristretto numero di malati sia un domani una realtà per tutti».
Ci sembra che il testo pubblicato risponda in maniera soddisfacente alla necessità/opportunità di informare della variabilità individuale della malattia, dell’influenza delle diverse mutazioni, delle cure e dell’ambiente, così come giustamente sottolineato da chi ci scrive. Quindi il dibattito si restringe alla frase: “le statistiche suggeriscono un’aspettativa mediana di vita intorno ai 40 anni”, a cui fa seguito “queste previsioni sono in continuo miglioramento grazie ai progressi della ricerca”.
Questa Fondazione raccoglie fondi per supportare progetti di ricerca scientifica. Poiché questo è il suo scopo principale, si propone di tenere molto vicini sul piano comunicativo tre concetti: 1) la fibrosi cistica è una malattia grave nella maggior parte dei casi; 2) la ricerca scientifica ha contribuito a modificare fortemente questa gravità; 3) sulla ricerca è basata la speranza che i malati abbiano un domani migliore e gli ultimi avanzamenti stanno mettendo in campo con successo nuove terapie per colpire la malattia alla sua radice.
Il sito FFC, che della Fondazione è il braccio mediatico con maggiore risonanza, ha accessi così distribuiti: 65% malati e familiari di malati, 20% medici, paramedici, ricercatori FC, 10% popolazione generale (dati provenienti dal monitoraggio interno degli utenti). Tenendo presente tutte tre le categorie, il cuore del problema ci sembra possa essere riassunto nella domanda: per proteggere i malati e alimentare la speranza, divulgare la malattia FC implica omettere un dato concreto di realtà come quello delle statistiche sull’aspettativa di vita dei malati? Per cercare una risposta, vorremmo riportare qui l’esperienza maturata prima nell’assistenza diretta ai malati e poi nei contatti molto stretti che manteniamo con loro o con i loro genitori attraverso le varie iniziative della Fondazione.
Il malato FC adulto sicuramente conosce la verità sulla sua malattia, si confronta con la sua realtà clinica durante i ricoveri nei centri specializzati, attraverso la rete comunicativa dei social network (molto vivace) e in molti altri modi. Sembrerà strano, ma molti malati adulti ci hanno invitato a sostenere la posizione che la verità va detta, quindi anche i dati statistici chiaramente riportati, perché diversamente la gente non sa di che tipo di malattia si sta parlando, di quanto frustrante sia per il malato il contrasto fra il sembrare come gli altri e nello stesso tempo vivere guadagnandosi la vita giorno per giorno attaccati ai dispositivi per gli aerosol e stremati dagli accessi di tosse. A titolo di esempio invitiamo a leggere il messaggio dell’autore di un nostro recente strumento comunicativo.
Quelli che hanno diversa opinione, e ce lo hanno fatto sapere, sono un certo numero di genitori di bambini e adolescenti malati: questi riportano il timore espresso dalla nostra lettrice, e cioè che il dato sia troppo brutale ed esplicito, e che convenga piuttosto rimanere nel vago, perché può essere interpretato come una scadenza inappellabile. Qui si aprono molte riflessioni e fra queste il tema del perché genitori di malati di queste età esprimano il bisogno di proteggere i figli dalla verità della malattia. Certamente in qualsiasi forma di comunicazione di verità così serie la comunicazione va accompagnata: quindi non hanno torto a obiettare che c’è modo e modo di dire le cose. Certe informazioni sono tollerabili solo se chi le fornisce si fa carico dell’impatto che provocano e dà un aiuto a elaborarle. Via internet, è vero, questo non è possibile. Quindi il malato (bambino o adolescente) che si imbatte nella frase contestata, come in altre frasi-verità in cui, indipendentemente da Internet, comunque incapperà, se non ha mai sentito parlare né del problema né delle sue possibili soluzioni (le cure che migliorano, la ricerca in rapida evoluzione), è privo delle competenze che gli permettono di fronteggiarla: l’impatto può essere drammatico.
Una riflessione successiva è sul modo in cui il malato può sviluppare queste competenze e se abbia a che fare con i contenuti e le modalità della comunicazione di chi lo circonda. Non abbiamo trovato ricerche italiane condotte sull’argomento. Ci sono però recenti studi svolti altrove (1,2), che citiamo, anche perché rispecchiano la nostra esperienza assistenziale. I dati riportati suggeriscono come vantaggiosa una comunicazione sulla malattia non evitante i temi difficili. Un clima comunicativo, adattato età per età, improntato alla franchezza e alla verità aiuterebbe il malato a sviluppare quelle risorse personali (definite con una parola: resilienza) che gli permettono di meglio adattarsi alla malattia. Un buon adattamento sembrerebbe favorire la capacità di parlarne anche fuori di casa, cosa che può portare a miglior supporto e relazioni sociali, a positivo inserimento in attività comunitarie e a maggiore aderenza alle cure, con ripercussioni positive sul suo stato di salute (2).
Chi vive sulla sua pelle il problema e si imbatte per la prima volta con la verità senza competenze per fronteggiarla, legge la frase della mediana dell’attesa di vita in maniera emotiva e non razionale. Quindi, certo non rifletterà sul fatto che mediana (e media) sono dati statistici, alla cui costruzione concorrono singoli individui che possono avere forme di malattia molto diverse fra di loro, alcune più miti, altre più severe, e sul fatto che il decorso è influenzato dalla maggiore o minore precocità delle cure e dall’aderenza con cui vengono applicate. Forse (ma è solo un’ipotesi), la sintesi forzata che la statistica fa di tutto questo è più facilmente colta dalla persona comune, che non è coinvolta emotivamente perché non sa niente della fibrosi cistica e quando si imbatte nel sito FFC vuole sapere una cosa molto concreta: ma quanto si vive in media con questa malattia?
Dare una risposta univoca alle varie esigenze non è facile. Ognuno degli spunti riportati sopra porta ad altre considerazioni, tutte da esaminare per riuscire a vedere il problema nelle sue articolazioni e di qui rispettare tutte le voci in campo. La sezione “Domande e Risposte” del sito non ha questo scopo. A questo scopo intendiamo piuttosto avviare iniziative che si svolgeranno con le modalità abituali adottate da FFC per interagire con quanti la sostengono. Una di queste è il Seminario di Primavera, che si tiene ogni anno a Verona e vede la partecipazione di genitori FC, malati, volontari, popolazione interessata. Nel Seminario 2017 affronteremo e ci confronteremo sull’argomento, anche con l’aiuto di esperti di varie discipline (psicologia, etica, giornalismo). Invitiamo la nostra lettrice a partecipare per portare il suo contributo, pensando che anche dal dibattito potrebbe venire l’indicazione a come gestire l’informazione contestata. Vorremmo anche ringraziarla della frase sulla speranza, la condividiamo in pieno e pensiamo che il sostegno dato da FFC alla ricerca scientifica nel campo di questa malattia rappresenti un messaggio molto concreto per sostenere la speranza, come quello indicato per l’avvio della prossima Campagna Nazionale per la Ricerca FC: “La speranza è sulla buona strada”, con riferimento ai progressi ricerca e al Bike Tour per la ricerca (8-12 ottobre, Verona-Lecce).
1) Mitmansgruber H, Smrekar U, Rabaner B, Beck T, Eder J, Ellemunter H “Psychological resilience and intolerance of uncertainty in coping with cystic fibrosis”. J Cyst Fibros. 2016 Sep; 15(5):689-95. doi: 10.1016/j.jcf.2015.11.011. Epub 2015 Dec 10.
2) Borschuk AP, Everhart RS, Eakin MN, Rand-Giovannetti D, Borrelli B, Riekert KA. “Disease disclosure in individuals with cystic fibrosis: Association with psychosocial and health outcomes”. J Cyst Fibros. 2016 Sep; 15(5):696-702. doi: 10.1016/j.jcf.2016.02.011. Epub 2016 Mar 17.PMID: 26996270.