“La mia vita è sempre stata accompagnata dalla fibrosi cistica. Mi chiamo Paola e a settembre compirò 54 anni. Un’età che mi sembra impossibile perché da ragazza neanche nei miei sogni avrei pensato di poterla raggiungere”.
Paola è una donna con qualche rimpianto e molti ricordi d’amore. È una donna che ha scoperto e fatto suo il valore della tenacia. “Quando nacqui – racconta – i miei genitori erano sì felici per il mio arrivo, ma anche molto preoccupati per la salute di mio fratello Maurizio. 14 anni e da sempre alle prese con continui problemi respiratori, per i quali nessun medico ancora era riuscito a scoprire la causa. Solo quando ebbe 17 anni, un giovane dottore gli diagnosticò la mucoviscidosi, il nome con cui allora veniva denominata la fibrosi cistica. Una malattia ereditaria, ci dissero, e così anche io venni sottoposta al test del sudore. L’esito fu negativo e i miei genitori si sentirono sollevati.
Ricordo mio fratello magrissimo, sempre scosso da tossi e febbri che lo costringevano a letto o al ricovero. In quegli anni ancora non si conosceva quale fosse il gene mutato causa della malattia e non esistevano centri di cura dedicati. Si veniva ricoverati nei reparti di medicina interna insieme agli altri pazienti, senza le precauzioni che ora si osservano per evitare infezioni crociate. Non esisteva la pep-mask o la fisioterapia autogena. A Torino le fisioterapiste insegnarono a nostra mamma a praticare le “battiture”: ero piccola, vedevo mia mamma applicare questa terapia a mio fratello. Mi insegnò a farla e negli anni a seguire mi raccontava di quanto si intenerisse a guardare me piccola con quelle manine che si muovevano con impegno e delicatezza.
Mio fratello era un ragazzo buono, timido, gentile, molto intelligente e portato per la matematica e la fisica: nei due anni di Università inanellò tutti 30 e 30 e lode. Nell’estate del 1973 la sua salute peggiorò ancora e Maurizio disse a mia madre che era giusto che lui se ne andasse, in modo che io potessi crescere più serena, in un mondo in cui la malattia non la faceva da padrona. Morì il giorno dell’Epifania del ‘74, chiamando il mio nome, mi raccontarono successivamente. Mia madre buttò le offerte di lavoro arrivate dalle aziende a cui le Università segnalano i nominativi degli studenti più meritevoli.
Dopo neanche quattro anni dalla scomparsa di Maurizio e dopo un’infanzia trascorsa in salute, una bronchitella che non riusciva a guarire mi costrinse al ricovero al Regina Margherita di Torino per accertamenti. Venni nuovamente sottoposta al test del sudore che di poco superò i valori normali, ma la sintomatologia era chiara e la diagnosi fu: fibrosi cistica. I medici si dissero ottimisti perché l’aver trascorso indenne gli anni dell’infanzia suggeriva una prognosi più benigna. Inoltre, all’epoca stavano nascendo i primi centri di cura e la mia storia avrebbe potuto essere diversa. Nessuno ebbe mai il coraggio di pronunciare con me le parole mucoviscidosi o fibrosi cistica: si parlava di bronchite cronica. Non ne volevo sapere di curarmi e i miei non ebbero la forza di costringermi. Negli anni a venire capii che anche per loro era stato come per me, non erano stati in grado di accettare di essere ripiombati nell’incubo.
A 15 anni smisi il liceo perché mi vergognavo di tossire in classe: ripetevo a me stessa che il mio destino era già scritto e che sarebbe stato inutile frequentare. A 16 anni il medico di famiglia parlò con il primario di pediatria dell’ospedale della mia cittadina, un medico a cui devo moltissimo e che ci ha lasciato pochi giorni fa. Finalmente mi convinsero che, se mi fossi curata, avrei potuto avere una vita diversa da quella di mio fratello. Al Regina Margherita, dove era nato uno dei primi centri FC, mi insegnarono a fare la fisioterapia autogena e a gestire le cure. Iniziai a curarmi, ma in modo irregolare: era il mio atto di ribellione. Ero arrabbiata con il mondo e con il mio destino. Non ne parlai mai con nessuno del mio malessere: non raccontare della malattia era l’unico modo che avevo per negarla anche a me stessa.
Da ragazza le riacutizzazioni erano molto frequenti: la febbre non scendeva mai sotto i 37,3°. Al termine del 1988 ne ebbi una bruttissima. La febbre salì sopra i 39°, mentre l’ossigeno scese. Mi ricoverarono, pesavo solamente 35 kg. Mia madre non lasciò mai la mia stanza. La sua tenacia, insieme alla mia robustezza e alle cure intensive, mi permisero di superare quel momento. Solo dopo seppi che avevo rischiato la vita.
Ripresi gli studi musicali iniziati da bambina al Conservatorio. Riuscii, anche se in modo irregolare, a frequentare e a diplomarmi nel 1991.
A 27 anni subii tre embolizzazioni. Avevo sofferto di emottisi dall’adolescenza, ma negli ultimi anni erano diventate più frequenti. Poco tempo dopo, senza apparente ragione, iniziai a prendere peso e la condizione infiammatoria si normalizzò. I medici non seppero spiegarsi questo miglioramento. Se credessi fortemente nell’aldilà potrei pensare che ci avesse messo lo zampino mio padre, che l’anno prima ci aveva lasciati. L’ultima pesante riacutizzazione è stata nel 2013, dopo la quale ho dovuto iniziare l’ossigenoterapia notturna e sotto sforzo. Questo cambiamento mi spinse a chiedere il prepensionamento da amministrativa nell’ospedale della mia cittadina in cui avevo iniziato a lavorare 16 anni prima. Non me ne sono mai pentita. Potevo finalmente non sentirmi più in colpa per le giornate in cui il respiro corto o il non aver dormito adeguatamente non mi lasciavano la forza per andare al lavoro. Potevo finalmente gestire il mio tempo e assecondare adeguatamente il mio stato di salute. Iniziai a dedicarmi all’opera di volontariato a favore della Fondazione per la Ricerca sulla fibrosi cistica, con il ruolo di responsabile per Delegazione di Acqui Terme.
Da circa 2 anni assumo il Kalydeco. È il primo farmaco che corregge parzialmente il difetto di base della malattia, rendendo il muco più fluido e quindi diminuendo drasticamente le infezioni respiratorie. Su polmoni danneggiati da tanti anni di malattia non si verificano miracoli, ma mi sento più forte e sono più resistente agli attacchi di virus e batteri. Questa recente strada della ricerca traccia una nuova era per le persone affette da fibrosi cistica: questi farmaci se assunti in tempo possono bloccare o limitare molto il decorso della malattia. Anche la Fondazione sta sperimentando una nuova molecola che in vitro corregge il difetto genetico della mutazione più diffusa, la F508del. Per ora si è in fase di sperimentazione preclinica, ma la speranza è veramente tanta.
Mi sono sposata due volte, la prima nel 1992 e la seconda a luglio dello scorso anno. Ho conosciuto Silvio, mio marito, in un gruppo su Facebook dedicato alle persone con patologie croniche e legato al mondo dei trapianti. Ci siamo innamorati scrivendoci. Lui, 9 anni in più di me, è trapiantato di cuore da 10 anni. Insieme sappiamo farci forza l’un l’altra godendo delle piccole cose che ogni giornata ci dona.
Quello che desidero trasmettere con la mia storia è il valore della tenacia e della speranza. Anche nei momenti più bui, anche quando la nostra condizione pesa su di noi come una spada di Damocle, è importante non smettere mai di progettare. Vorrei poter tornare indietro e rivivere appieno gli anni in cui ho rinunciato a tanto, per paura e per il mio credo fatalista. Vorrei tornare a quando pensavo che la mia vita sarebbe stata più breve, per convincere la me stessa di allora che è meglio cercare di vivere appieno all’interno dei limiti che la nostra condizione ci dà, e non smettere mai di sperare. Perché il futuro non lo si può predire mai fino in fondo”.