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A 30 anni, l’obolo alla fibrosi cistica non lo si vuole pagare

Tra accettazione e rimozione

Irene, anno 1988, unica figlia di due ristoratori di Chivasso, nella provincia torinese, studia Graphic Design al Politecnico di Torino e consegue la laurea magistrale in Design della comunicazione al Politecnico di Milano. La passione per la grafica e la fotografia la fanno scegliere per uno stage di sei mesi in Inghilterra. «Era il 2012 – racconta. Londra è stata una bella palestra. In uno studio facevamo sigle e grafiche per serie tv trasmesse dalla BBC». Irene si trasferisce. «Ho trovato coinquilini italiani. Un caso. Affittavano un ripostiglio. C’era solo il mio letto. Ho legato subito con loro. Erano tutti ragazzi più o meno della mia età, col sogno di fare un lavoro simile al mio. Uscivamo anche insieme». Senza punti di riferimento, Irene arriva a Londra con scorte di farmaci e l’idea di tornare in Italia senza doverli realmente utilizzare. «Sono partita da sola, ignorando il fatto che avevo dei problemi di salute. La fibrosi cistica era una cosa che sapevo esserci, ma a cui non dovevo pensare. Una cosa secondaria, che non mi toccava e a cui non dedicavo più di tanto le mie attenzioni», ricorda. È veloce di pensiero e ad ascoltarla non si crede abbia potuto negare al punto la malattia da fingere di non averla, ma la ricerca di una crescita professionale e umana per lei vengono prima di tutto.

«I ritmi londinesi sono difficili da seguire – continua Irene. Lavoravo nella City e vivevo in West London. 90 minuti di spostamento. Il tempo che mi rimaneva lo usavo per visitare la città. Presto ho iniziato ad avere la febbre, a stare male, ad avere problemi nel concreto. Assumevo continuamente Tachipirina. Con me avevo farmaci standard, ma avevo bisogno di cure antibiotiche. Come funzionava la sanità inglese?». Irene è costretta a cercare informazioni. Non ha contatti con ragazzi FC o qualcuno a cui fare domande sulla malattia. «Ho cercato un medico di base e gli ho chiesto di indirizzarmi a un centro di cura – ricorda. Mi ha spedito in un ospedale a West London, in una pneumologia qualsiasi. Non era il posto giusto. Sono tornata dal medico di base. Ho mandato e-mail a tappeto per trovare un centro FC. Rispondono da East London. È un centro piccolissimo». La ricerca cominciata a settembre termina a fine ottobre. «Non avevo mai fatto ricoveri per cicli in vena. Ero sempre stata bene. Il medico dice che ne ho bisogno e scoppio a piangere sulla sua scrivania. “Ma chi mi porta qui le mutande pulite? Io non posso stare qua. Vivo dall’altra parte della città. Devo finire il tirocinio”, continuavo a ripetere. Dopo un’ora di pianto disperato mi ha prescritto qualcosa per tirarmi su e farmi andare avanti fino a Natale. Stavo malissimo. Avevo la febbre a 39, ma ho continuato ad andare a lavorare. Ero lì per fare quello e sono orgogliosa». Irene è intransigente con se stessa, ha un senso del dovere ferreo e la passione per le cose che sceglie. Il tragitto per arrivare all’aeroporto e tornare a casa non lo potrà dimenticare. «Il giorno dopo mi hanno ricoverata. Questa cosa mi ha segnata». Al punto che in febbraio, quando la contatta Il Sole 24 Ore per un lavoro a tempo indeterminato, che prevede lavoro notturno e nei fine settimana, declina l’offerta. La fierezza di Irene paga l’obolo alla malattia, ma non le si piega. Si laurea in settembre e inizia a prendere piccoli lavori, che progressivamente aumentano. «Mi facevo aiutare dalla mia coinquilina di Milano – racconta. Da allora ho iniziato a mettere in stand by la preparazione di un portfolio per cercare lavoro e, senza accorgermene, ho aperto la partita iva. Sono passati oramai cinque anni. Ho più flessibilità, ma se non lavori non fatturi e perdi clienti. Non ci sono scuse per non lavorare», sorride Irene.

È più forte di lei. Non sfida la malattia. La ignora. «Per me la fibrosi cistica è solo un ostacolo in mezzo al naturale scorrere delle cose. Non faccio ruotare la mia vita intorno a lei. Chi fa diventare la malattia un pretesto per non agire e si piange addosso mi irrita, come l’atteggiamento del tutto dovuto. Credo che la voglia di fare e di affermarsi non debba mancare in nessuna condizione. Servono verve, un obiettivo, l’impegno e uno scopo diverso da quello di ricevere aiuto dagli altri». Irene, d’altra parte, ha imparato a difendersi fin da bambina. «A tre-quattro anni mi hanno diagnosticato, sbagliando, la celiachia. È stato solo quando ne avevo otto che hanno capito cosa avessi realmente. Ricordo il trasporto aereo di notte dalla Sardegna a Torino. Mi hanno fatto diagnosi, questa volta corretta, in seguito a un blocco intestinale, che mi ha fruttato un’operazione. È stato uno specializzando fresco di studi a pensare alla mucoviscidosi. Ero già una bambina speciale, il fatto di avere una malattia diversa non mi spostava nulla. Anzi, dopo la diagnosi di FC ero contenta, perché finalmente potevo mangiare quello che volevo. “Devi prendere solo delle compresse ai pasti”, mi avevano detto. Le altre cose subentrate sono semplicemente diventate compiti da svolgere», racconta divertita Irene, che aggiunge «qualche problema me lo creavano i bambini: non capivano perché prendessi le pastiglie e mi chiamavano drogata».

Ha 15 anni quando cerca informazioni sulla malattia. «Lessi che l’aspettativa media di vita si attestava intorno ai 25 anni, rimanendo scioccata. Pensavo che curandosi si andasse avanti! – ammette. Ho interiorizzato e rimosso. Sono seguiti dieci anni di stabilità». A circa 24, la seconda rivelazione. «Mi sono iscritta ai gruppi Facebook della comunità FC – spiega. La varietà delle storie delle altre persone mi ha aiutato a trovare un equilibrio. Ho capito che ogni caso è a sé. Ci sono alti e bassi. È così che funziona e si va avanti. Posso considerarmi molto fortunata. Sono stata inconsapevole per tantissimo tempo. Ora le informazioni le ricevi anche passivamente, ma quando avevo 20 anni la presenza degli altri nelle vite individuali non era come adesso. Ripenso a quando vivevo a Milano. Avevo poco tempo per prendermi cura di me stessa e nessuno mi aveva spiegato che nella nostra condizione può succedere di tossire sangue. Mi capitò di avere un’emottisi notturna. La corsa in taxi in ospedale fu spaventosa: con un violento conato di vomito riempii il cruscotto dell’auto di sangue, sotto lo sguardo terrorizzato dell’autista e di me stessa, che pensavo non sarei sopravvissuta. Per me la fibrosi cistica è sempre stata un fastidio più che un’incombenza, un ospite indesiderato rispetto a cose più importanti. Dovevo studiare, dare gli esami. Ho passato la vita rifiutando i ricoveri per tenere botta. Prendevo Tachipirina a uso preventivo e cortisone e antibiotici per bocca come non ci fosse un domani. Ho altro da fare, non ho tempo per la malattia, ho continuato a ripetermi. L’ho tenuta in secondo piano. Doveva piegarsi al resto». Non è più proprio così, ma Irene resta uguale a se stessa e chiedendole se e in che misura la fibrosi cistica abbia influito nei suoi rapporti personali, risponde: «mi sono fatta un amico. A distanza di anni, l’autista della mia notte splatter, un completo sconosciuto fino a che non mi ha caricata in macchina, mi telefona periodicamente, in maniera totalmente spontanea e disinteressata, per sapere come sto». Impossibile frenare la sua ironia. Poi aggiunge: «sono una che mette le carte in tavola da subito e sono la prima a non fare diventare i problemi personali questioni epocali. La natura è quella che è. Spiego i comportamenti che devo tenere per preservarmi, così l’altro sa cosa aspettarsi. La malattia non deve pesare innanzitutto a me, difficilmente peserà a qualcun altro. Ci sono io a fare da filtro». Conclude con una menzione speciale delle amiche con la FC: «sono una certezza quotidiana da tre-quattro anni. Saremmo state vicine indipendentemente dalla malattia. Ci siamo trovate per caso. Abbiamo età diverse e ci sentiamo praticamente ogni giorno. È una cosa che tutti dovrebbero trovare la piccola cerchia con cui condividere gioie e dolori. Un grande supporto per risolvere i problemi».

Irene parla per tutto il tempo delle sue passioni, grafica e fotografia, che è stata così in gamba da trasformare in lavoro. Che altro ama? «La pole dance. Mi piaceva guardare chi la faceva, mi ricordava la ginnastica artistica, e pensavo che non avrei mai potuto riuscirci. Ho sempre fatto poco sport e passato molto tempo davanti al pc. A sorpresa mi sono appassionata, e oramai da due anni quasi vivo in palestra. Faccio pole tre giorni alla settimana più uno di discipline aeree ovvero cerchio e tessuti. È stimolante, ti aiuta a superare le insicurezze. Si procede per obiettivi. Riesci a fare una cosa e ce n’è sempre una più difficile da raggiungere».

 

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