Madre e figlia, tra resistenza al dolore fisico e dell’animo e struggente passione per la vita, trafitta da una malattia, la fibrosi cistica, che si è presa tutto, ma non il desiderio di sconfiggerla. «Una bomba avvolta in nastri di seta»: la loro storia è un po’ quella di Frida, impalata dagli eventi, ma il cui inno rabbioso alla gioia non smette di svegliare le nostre coscienze.
C’è una storia scritta sulla pelle di Asia: la raccontano i suoi tatuaggi e i segni, ugualmente indelebili, che la vita non manca di lasciare. La vita di Asia è piena di cicatrici. Il suo corpo porta memoria della malattia con cui è nata, la fibrosi cistica, che soltanto negli ultimi tre anni l’ha costretta a due trapianti bipolmonari. Asia ha 20 anni e la passione per la vita prima ancora che per la musica. «Sono nata grazie alla musica: i miei si sono conosciuti a teatro, al Rossini Opera Festival – spiega. Papà è un cantante lirico». Ci sono un pianoforte nero a mezza coda nel salotto e un impianto stereo che amplifica arie celebri. «Quando canto riesco a esprimermi – dice Asia. La cosa buffa è che adesso non sento». In seguito al secondo trapianto ha perso l’udito. «Vivo nel silenzio. Percepisco delle vibrazioni. Sento i rumori molto forti e ho ricordi di suoni sgradevoli che a volte, durante il giorno, come un carillon che s’inceppa, mi tartassano l’orecchio. Sono i suoni della flebo e dell’ambulanza. Sento anche il rumore dei bicchieri di cristallo, ma non riesco più a sentire me stessa. Mi mancano le voci di mamma, di papà, del mio ragazzo. È un po’ come stare in una campana di vetro gigante. Sono sconfortata, non arrabbiata. Lo prendo come un periodo di riposo. So che tornerò a sentire. Non ho fretta. Ci sono cose peggiori».
La tracheotomia le ha modificato la voce: la sua voce! «Migliorerà» aggiunge Francesca, la madre, ma intanto l’accanirsi della malattia sulla sua bambina la incrina. È diventato tutto troppo. Asia solleva un lembo dei pantaloni per mostrare il tatuaggio che divide a metà con la sua seconda mamma: «è una pupina con il telefono senza fili», quasi a dire che il sangue trova sempre una via per arrivare al cuore. È il febbraio 2009 quando iniziano le prove di Sweeney Todd, il musical diretto da Rosetta Cucchi, in cui Asia viene scritturata per la parte di Tobias. «Mi aveva sentito in concerto con Mario Mariani, a Pavia. Grazie a questo musical ho vinto a Piacenza il premio Poggi. Facevo ancora le medie. Ero l’unica italiana insieme ai componenti del coro. Avevo la febbre tutti i giorni, il port-a-cath sotto l’ascella con l’ago della flebo, uno spartito enorme con canzoni su canzoni piene di agilità, note assurde e dialoghi da mandare a memoria in un dialetto inglese. Salgo sul palco per cantare la prima aria, si accende l’occhio di bue ed escono il coro e tutti gli artisti cantandomi tanti auguri. Ho pianto come una matta. Dietro le quinte abbiamo mangiato pasticcini».
Mentre racconta quell’esperienza Asia ha gli occhi che ridono; scopre veloce un altro tatuaggio, come avesse fretta di aggiungere altre cose che la rendono felice: «If… puoi pensare significhi “se”, ma per me sono le iniziali di mamma e papà». L’alfa e l’omega di una personalità, quella di Asia, che ha concentrato l’essenza di entrambi, due artisti. «Da piccina papà mi mancava molto. Sapevo che i miei si erano separati quando avevo un anno perché non andava. Non capivo il motivo, ma non ho mai pensato fosse colpa mia. Il rapporto bello che ho con papà è iniziato dopo il primo trapianto. È un tipo particolare. Mi piace molto il babbo. È bello. Da bambina ne ero innamorata, mi faceva molto ridere. Mi dice sempre che se fosse per lui mi regalerebbe il mondo. Mi tratta come una principessa. Il papà mi riempie di coccole e di regali, la mamma fa la parte educativa, più dura. Ho un rapporto aperto con entrambi. Mi hanno abituata a parlare liberamente, non sono una che si chiude e tiene dentro. Con mamma siamo cresciute insieme da sole. Mi ha avuta da giovane. Aveva 22 anni. Non so se definirli sacrifici o in un modo diverso, quelli che ha sempre fatto per me. È anche una sorella, la mia migliore amica, psicologa e infermiera». Perciò il bacio della mamma non poteva mancare. Asia se l’è fatto tatuare sulla pancia, come avesse il potere di fare passare ogni male. «Lei è dolce, ma sa essere molto stronza. Se lo diventa è perché mi vuole fare capire le cose. E ci riesce. Ci divertiamo, anche se dopo il secondo trapianto ci siamo lasciate spaventare dalla paura. Se cade lei cado io e viceversa».
Immer geradeaus, sempre diritto, il motto che le corre lungo l’avambraccio, è difficile da praticare quando le strade sembrano distorcersi come in un’allucinazione. Nonostante tutto Asia è qui a raccontarsi. «Cos’è per me la malattia? Quello che sono diventata. Se non avessi attraversato mille prove, non sarei l’Asia alla quale vogliono tutti bene. Spesso la fibrosi cistica mi ha buttata giù, ma non le ho mai permesso di avere la meglio. Nel luglio 2013, mentre il dottore diceva ai miei che stavo morendo, vedendo la mamma con la faccia sempre più gonfia dal pianto, ho capito che c’era qualcosa che non andava. La nonna Bruna è una tipa esuberante. La nonna quel giorno non era lei. Non la riconoscevo. Mi metteva tranquillità. “Nonna, devi dire alla mamma che ho tutto sotto controllo”, le ho detto. In quel momento volevo andarmene. Non riuscivo a immaginarmi un domani. Avevo toccato il fondo. Associo al coma una visione strana: ero io ma non ero io. Vedevo la scena da un’angolazione diversa: la scena di un pesciolino di tutti i colori che doveva superare tantissime prove. Sentivo i miei piangere, ma non capivo di essere in fin di vita. Io ero lì con loro. Perché piangevano? Li sentivo singhiozzare senza riuscire a fargli capire che non dovevano, perché ero lì. Non potevo vedere la mamma in quello stato. La mamma è la positività fatta persona. Mi sono fatta forza. Quando ero bambina, ogni volta che mi dovevo ricoverare, mi diceva che andavamo in vacanza. Se mi mettevano l’ago sulla mano, mi raccontava che avevo la pinnetta atrofica come Nemo. Dalla seconda media ho fatto la scuola domiciliare. Ho seguito un programma ridotto per concludere i cicli scolastici. Quando arrivano brutte notizie le affrontiamo col piglio di chi ce la farà. Insieme abbiamo superato ogni difficoltà». Lo dimostra la farfalla trapuntata con l’ago in ricordo del primo trapianto. «In alcune culture la farfalla è simbolo di rinascita e libertà. Le ali cucite sono i polmoni», spiega Asia.
«Dopo il primo trapianto, ho assaporato la gioia di vivere senza flebo, ossigeno e ricoveri. Avevo 17 anni. Tornare a respirare: non mi pareva vero». Era come ritornare all’ultimo ricordo (tatuato a forma di barchetta) della vita precedente al trapianto: una giornata in barca sul Lago di Garda in compagnia di amici. «Godermi le sere d’estate fino a tardi, correre senza affanno, era un regalo. Prendevo la bici e andavo fino a Fano. Mi muovevo e mi stancavo parecchio senza averne la percezione. Non riuscivo a trovare i miei limiti. Ragionandoci, questo mi ha fatto male. Ora che ho ricevuto il secondo trapianto la prendo con più calma. Ho una grossa responsabilità. Mi sento come un essere gigante su un piedistallo minuscolo che traballa e può cadere da un momento all’altro. Cerco di stare in equilibrio, anche se è tosto da mantenere».
Per due volte Asia avrebbe potuto decidere di lasciarsi portare via, ma non avrebbe i baffi tatuati sul polso né Francesca terrebbe un poster con un autoritratto di Frida sulla porta della cucina. «Da piccina ero mora, pelosetta, avevo i baffetti e mi scambiavano per un bambino». Ad accomunare Asia e Frida sono soprattutto lo slancio vitale e una resistenza non comune al dolore, una pioggia continua nell’anima e nel corpo. Il 30 novembre scorso Asia era di nuovo in coma. Si è risvegliata a Firenze, in rianimazione, coi tubi dell’ECMO cuciti sulle gambe. È rimasta cosciente tutti i giorni fino al 19 dicembre, quando sono arrivati gli organi. Il giorno successivo era il compleanno della sua mamma. «“Nonna, sì o no?”, le domando di punto in bianco. “Sì”, mi risponde, capendo che chiedevo se ce l’avrei fatta». Così è stato. «Non volevo essere causa di tristezza per nessuno – dice Asia. Vedere piangere tante persone non mi è mai piaciuto. Mi hanno aperta tre volte. Avevo brutte emorragie. Associo alle operazioni visioni di rosso e luci forti psichedeliche. Gli anestesisti erano disperati. Sono stati molto bravi. Dopo il primo trapianto il mio corpo è diventato ancora più resistente a tutto. Ho una soglia del dolore altissima, ma spesso raggiungeva intesità 8-9. C’era un solo farmaco a darmi sollievo, perché mi evitava sensazioni. È quello con cui pare sia morto Michael Jackson. Me lo somministravano tutte le sere in terapia intensiva per farmi addormentare».
A chiederle se ci sia qualcosa che la spaventi risponde: «ho paura della paura. Amo la mia vita e non la cambierei di una virgola». C’è un cuoricino vuoto tatuato sulla nuca di Asia. «Il posto dove il mio ragazzo mi sveglia al mattino dandomi i bacini – spiega. Per me il vuoto rappresenta l’infinito».