Lo screening neonatale per fibrosi cistica si basa su di un sistema di test a più livelli. Il test di primo livello, che viene eseguito in tutti i neonati, consiste nel dosaggio nel sangue della “tripsina immunoreattiva” (test IRT) ; nei neonati con alti valori di tripsina viene eseguito il test di secondo livello, che è l’analisi genetica, basata su di un pannello di mutazioni del gene CFTR.
La presenza di due mutazioni permette di fare diagnosi di malattia FC; ma se viene individuata una sola mutazione il neonato potrebbe essere o malato (con una seconda mutazione rara non individuata dal test genetico) o portatore sano. Il test del sudore nella maggior parte dei casi potrà chiarire la diagnosi. Se è quella di portatore sano, tutti, genitori e operatori sanitari, sono sollevati, ma è interessante sapere come reagiscono a distanza i genitori, per organizzare meglio il servizio e l’informazione. Solo una piccolissima quota rispetto al numero totale dei bambini sottoposti a screening avrà questa diagnosi; ma una procedura ideale sarebbe quella che identifica solo i malati FC e non i portatori, perché in questo modo s’inducono ansie ingiustificate, perché viene diagnosticata una condizione genetica che non ha implicazioni per la salute, perché questo succede in bambini che non hanno chiesto personalmente (né l’hanno chiesto i loro genitori) di sapere se sono portatori e che in teoria, per essere uguali al resto della popolazione, dovrebbero scegliere di fare il test quando raggiungono la maggiore età . Per tutte queste ragioni l’individuazione di portatori del gene CFTR viene considerato un effetto collaterale “sfavorevole” dello screening neonatale. Vediamo i risultati di una ricerca condotta presso i genitori di bambini risultati portatori.
Si tratta di un studio condotto nella regione di Victoria, in Australia. E’ una regione in cui da tempo i bambini sono sottoposti allo screening neonatale FC; i ricercatori hanno voluto paragonare due periodi storici, il 1996/97 e il 2001. Perciò hanno inviato a casa un questionario ai genitori dei bambini identificati come portatori nei due periodi, complessivamente 66 bambini. Mentre tutti i genitori del 2001 ricordavano la diagnosi di portatore nel loro bambino, il 3% di quelli del 96/97 l’aveva dimenticata. Nel 2001, solo il 49% dei genitori era stato informato circa la possibilità che lo screening neonatale FC avesse come risultato la diagnosi di portatore, rispetto al 70% del periodo precedente (forse con il tempo anche le migliori organizzazioni tendono a peggiorare!). In compenso, un maggior numero di genitori del 2001 si era sottoposto al test genetico per sapere chi dei due avesse trasmesso la condizione di portatore al figlio (85% rispetto al 53% del periodo precedente). Raramente però l’informazione sull’utilità di sottoporsi al test genetico FC era stata riportata agli altri parenti (il cosiddetto screening “a cascata” per l’identificazione dei portatori nelle famiglie con rischio particolare di FC).
Comunque, la maggior parte dei genitori di entrambi i periodi si dichiarava soddisfatta delle informazioni ricevute al momento dell’esecuzione del test del sudore nel bambino; quelli che in base alla diagnosi di portatore riferivano di essere preoccupati per la salute del bambino e per le sue decisioni future in tema di riproduzione erano il 28% nel 96/97, ma erano scesi al 18% nel 2001. Tutto questo succede nella lontana Australia: speriamo che a chi spetta di organizzare lo screening neonatale FC e la relativa informazione in Italia questa ricerca offra buoni spunti.
1) Lewis S, Cuenow L et all “Parental attitudes to the identificationof their infants as carriers of cystic fibrosis by newborn screening” J Paediatr Child Health 2006 Sep; 42(9):533-7