Un importante medico americano, esperto di screening neonatale FC, si è occupato molto degli aspetti della comunicazione sullo screening e i suoi articoli sono comparsi sulle più importanti riviste scientifiche (1), a conferma dell’importanza che la sanità americana attribuisce a questo tema. Egli ritiene di fondamentale importanza che i medici sappiano informare correttamente i genitori sui risultati delle indagini fatte alla nascita del loro bambino (1): infatti, se non hanno compreso ciò che il medico ha detto, per esempio nel caso di un bambino diagnosticato portatore sano del gene FC, possono sviluppare ansia, depressione, senso di colpa o sentimento di “diversità”, incertezza sul fatto che il bambino sia sano o malato. Queste pesanti complicazioni psicosociali possono compromettere i vantaggi dei programmi di screening neonatale e limitarne la realizzabilità su vasta scala. Lo scopo di questa recente ricerca (2) è stato quello di indagare se i medici che informano dello screening si preoccupano di valutare ciò che il genitore ha capito, in sostanza se i medici “parlano solo per se stessi” oppure sono consapevoli che il genitore potrebbe anche non capire e quindi va aiutato nel processo di comprensione delle informazioni.
Il medico può fornire quest’aiuto alla comprensione attraverso domande anche semplici di verifica (“Sono stato chiaro abbastanza? C’è qualcosa di quello che ho detto che è difficile da capire? Ha senso?”… ). Gli esperti dicono che il modo più efficace è quello di chiedere al genitore di spiegare a sua volta quello che ha capito, come se dovesse riportarlo ad un parente o un amico. Perciò sono stati registrati i colloqui informativi di trentadue pediatri che facevano pratica in un grosso centro di Milwaukee (Wisconsin), ai quali era stato assegnato il compito di informare sei donne che si erano preparate a interpretare la parte di mamme di diversa età, etnia, classe sociale. Le malattie oggetto di screening erano la fibrosi cistica e l’anemia falciforme (un tipo di anemia frequente nella popolazione nera americana). Per quanto riguarda la FC, l’informazione da dare era che il bambino era risultato positivo allo screening neonatale per FC: aveva tripsina elevata e test genetico indicante la presenza di una mutazione FC (DF508). Era in attesa del test del sudore e il medico valutava che fosse probabilmente un portatore FC, ma che ci fosse anche un 5-10% di probabilità di malattia FC, dato che nel genotipo poteva esserci una mutazione non identificata.
I colloqui registrati sono stati classificati in base al numero e alla qualità della verifica della comprensione (dalle domande più superficiali tipo “OK?” a quelle più approfondite ed efficaci): di grado A erano quelli con alto livello di attenzione a quest’aspetto, di grado D i più scadenti.
Su 59 registrazioni (circa due per pediatra) nessuna è stata classificata di grado A, 3 (5%) di grado B, 20 ( 34 %) di grado C e la maggioranza assoluta (34 = 58%) di grado D.
E’ interessante notare che la valutazione soggettiva che i pediatri avevano dato ai loro colloqui era molto più favorevole: perciò gli autori della ricerca dicono che questo criterio esplicito e oggettivo può inquadrare meglio la loro reale efficacia. E concludono che, come si sta puntando al miglioramento della qualità in altri settori delle cure per FC, così deve essere chiaro che bisogna migliorare anche la qualità della comunicazione. In quest’ambito è importante che tutti quelli che si occupano di FC almeno sappiano che le linee guida della comunicazione suggeriscono che durante la conversazione si verifichi più volte la comprensione di quello che si dice.
1) Ciske DJ et all “Genetic counselling and neonatal screening for cystic fibrosis: an assessment of the communication process” Pediatrics 2001; 107(4):699-705
2) Farrell H M et all “Assessment of parental understanding by pediatric residents during counseling after newborn genetic screening” Arch Pediatr Adolesc Med 2008; 162(3):199-204