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27 Novembre 2013

Fare il medico o il ricercatore che si occupa di fibrosi cistica? Il quesito di un giovane studente

Autore: Fouad
Argomenti: Varie
Domanda

Buonasera, sono uno studente al primo anno di odontoiatria a Monza, Università Bicocca. Entro l’anno prossimo devo decidere se tentare un passaggio a medicina. Per la ricerca in ambito FC in Italia e in questa zona qual’è l’offerta? Devo avere una laurea in pneumologia? Ho una persona a me cara con questa patologia, sono un ragazzo con delle capacità e vorrei indirizzarle in questo settore. Il mio dubbio sta nel fatto che non so se potrò essere più utile con donazioni alla ricerca, una volta ottenuto un posto di lavoro da odontoiatra o impegnandomi direttamente e scegliendo quindi un’altra strada nel mio percorso di studi. Ringrazio anticipatamente per la vostra disponibilità.

Risposta

Capita che incontrando persone con fibrosi cistica, ma anche amici di persone con FC (come nel caso della domanda) scatti la molla della spinta a decidere di intervenire direttamente con un proprio personale contributo. Chi è giovane ha davanti a sé la scelta del percorso di studi e la malattia FC lo cimenta stimolandolo a riflettere su decisioni magari rimandate o eluse. Fare il ricercatore o il medico che cura il malato FC? Sono due cose molto diverse: nel primo caso bisogna orientarsi verso facoltà come Biologia, Chimica, Biochimica, Farmacologia; nel secondo caso è preliminare la laurea in Medicina, cui dovrebbe seguire una specializzazione. Quella in Pneumologia sarebbe molto adatta, sia perché i problemi polmonari sono quelli più importanti nella malattia FC, sia perché lo pneumologo è figura adatta alla crescita d’età dei malati FC e quindi alla necessità di istituire i centri di cura per adulti, con medici formati per trattare gli adulti; oggi una buona parte dei medici che curano i malati FC ha la specializzazione in Pediatria: questo perché fino a qualche decennio fa i malati FC erano solo bambini e adolescenti. Queste le informazioni basilari per aiutare la scelta professionale. Ma oltre, e forse prima di queste, bisogna chiedersi (a nostro avviso): ci si sente attratti da un lavoro al bancone di laboratorio, dove si maneggiano provette, strumenti delicati e di precisione, macchinari complessi, tutti estremamente interessanti ma inanimati? Oppure c’è interesse al contatto diretto con le persone, che nel caso del medico implica attitudine all’ascolto del malato e al “farsi carico” del problema dell’altro, applicando il proprio sapere alla ricerca della soluzione del problema di salute dell’altro? C’è ancora questa distinzione fra le due professioni, che è senz’altro grossolana ma forse potrebbe aiutare. E va aggiunto che molto difficilmente, in una società complessa come quella attuale, ci si può formare a fare bene l’una e l’altra cosa insieme, com’è vero che è assai singolare che esista l’attitudine verso l’una e l’altra cosa insieme, è di poche e rare personalità. E’ vero che la malattia FC è uno di quei terreni in cui assistenza e ricerca dovrebbero andare di pari passo: il clinico FC è anche un ricercatore, perché deve riflettere costantemente sulla bontà delle cure che adotta per una malattia in cui gli interrogativi della scienza sono ancora moltissimi e le cure basate spesso su ipotesi piuttosto che su evidenze; ed è questa “ricerca” che dà maggior senso al suo assistere il malato. Per contro il ricercatore di laboratorio FC è sempre più chiamato a tener presente le richieste dei malati nell’orientare il suo percorso di ricerca, a confrontarsi con la realtà della malattia, molto meno asettica e programmabile degli esperimenti di laboratorio. Sullo sfondo vi è la necessità di una collaborazione sempre più stretta fra medici e ricercatori, per mettere in comune competenze ed esperienze diverse contro una malattia che ancora oggi mette a rischio la vita, ma che da questa sinergia può essere sconfitta.

G. Borgo


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