33 anni, un trapianto di polmoni avvenuto nove anni fa e la battaglia quotidiana a una malattia, la fibrosi cistica, che nega le cose più semplici ma non ancora i sogni.
Marcia mi raggiunge nella sede della Fondazione per la Ricerca sulla Fibrosi cistica di Verona. Neanche 40 kili di luce purissima. È minuta, quasi inconsistente. Sta tutta concentrata in quegli occhi grandi, scuri, a mandorla, che mi guardano diretti e in cui brilla l’energia di mille soli, la stessa che le sprizza da ogni riccio.
Parliamo delle ore, finché non scappa a prendere il treno che la riporterà a Milano. Rileggo le sue parole e non trovo traccia del tempo sospeso in attesa del trapianto, della sensazione angosciosa di sentirsi soffocare, del peso di una terapia quotidiana. E allora mi chiedo: forse che si può ferire la luce? Sarebbe come tentare di afferrare le ombre.
A Marcia la fibrosi cistica la diagnosticarono quando aveva due anni. A otto lasciò Lisbona perché «in Portogallo non c’era modo di curarsi adeguatamente». La sua mamma, che lavorava al Ministero degli Affari Esteri, fece il concorso e nel 1986 si trasferirono in Italia. Obiettivo: vivere, il meglio possibile, dando battaglia alla malattia.
«Quando la diagnosi avviene in età precoce – dice Marcia – la malattia diventa una cosa della quotidianità. Cresciamo, ci sviluppiamo e tutto quello che siamo è legato alla fibrosi cistica. Sono normali le medicine, l’ospedale, la terapia, qualche attenzione in più. Non è niente di così particolare né speciale. A seconda dell’evolversi della malattia, poi, ti fai le domande. Col tempo si acquista sempre più coscienza, ma avviene per gradi, con naturalezza. C’è da dire che ora i bambini vengono seguiti molto meglio. Il bambino di nove anni di oggi non è la bambina di nove anni che ero io. In generale la situazione è molto migliorata».
Ma che cosa significa vivere con la fibrosi cistica? «Fare aerosol, fisioterapia respiratoria, terapia antibiotica, flebo, ricoveri ospedalieri. Un malato di FC vive e cresce con le terapie, che diventano una parte importante e molto impegnativa delle sue giornate. Difficile farne a meno, visto che è l’unico modo di stare bene, infatti, non si tratta di terapie da fare e medicine da prendere solamente durante un periodo in cui non si sta bene: sono cose da fare sempre. Chi ha la fibrosi cistica non può lasciare la malattia a casa e anche in vacanza deve fare il suo dovere di malato. È una compagna di vita con cui bisogna imparare a convivere con la massima serenità possibile. Accettarla non significa smettere di desiderare una vita diversa. Un malato di FC desidera soprattutto riuscire a mantenersi nelle migliori condizioni possibili per poter un giorno vedere che anche per lui c’è una cura che gli permette di condurre una vita normale, non più dipendente dai farmaci, i medici, gli ospedali. E per vita normale intendo una vita in cui non si è costretti a scegliere tra la malattia e i propri desideri».
La prima volta in cui Marcia si trovò a fare i conti con quello che la fibrosi cistica non le permetteva di fare fu quando dovette scegliere la scuola superiore: «fin da bambina la mia aspirazione era stata diventare infermiera. Dovetti rendermi conto che il sogno di aiutare e curare tante persone, per me, era una cosa impossibile. Io stessa ero malata e avevo bisogno di curarmi, perché la fibrosi cistica non ti lascia molto spazio. Fa anche la prepotente». Al punto che, gli ultimi anni delle scuole superiori, Marcia si trovò a dover decidere se studiare o curarsi.
«Nella sfortuna di essere malata ho avuto una grande fortuna: trovare, nei momenti più decisivi e difficili della mia vita, le persone migliori», in quel caso degli insegnanti molto disponibili, che le permisero di diplomarsi. Se Marcia avesse nascosto la propria malattia, come non è raro avvenga, avrebbe negato ai sani la possibilità di capire e intervenire, ai malati il sostegno umano e della ricerca e a se stessa la possibilità di ottenere il diploma.
Che differenza passa nel rapporto tra malato e malato e con un amico sano? Marcia parte da lontano, ma non troppo: «in reparto una volta si conviveva di più. Ora ci sono molte norme d’igiene e si cerca di creare meno contatti possibili tra pazienti. Si è un po’ più distaccati. Comunque, quando ci si trova lì dentro, ognuno sa che cosa è l’altro. Siamo persone che abbiamo moltissimo in comune. La malattia è molto difficile da condividere con una persona che non ce l’ha. Chi ha la stessa cosa ti capisce in modo diverso. L’amico malato sa cos’è tossire molto; avere tanto catarro, la difficoltà a trovare le vene; faticare a tenere un ago cannula per più di due giorni; non riuscire a respirare; faticare a salire le scale. Sono le piccole cose che fanno la malattia. L’amico sano è quello che si preoccupa, si aggiorna, ti aiuta fisicamente, però la sua comprensione della malattia non sarà mai così profonda».
Quando Marcia ebbe un forte calo della funzionalità respiratoria cominciò a usare l’ossigeno. «Avete mai visto qualcuno con una bombola a tracolla e le cannette nel naso tipo ospedali da telefilm? Ecco, ce le avevo anch’io. Solo che portavo la bombola in uno zaino e degli occhiali giganti che nascondevano le cannette. Arrivata a quel punto non avevo molta scelta – dice. «In quella condizione avrei potuto rimanere in una situazione stabile, ma non sapevo per quanto tempo». Decise per il trapianto, pure una soluzione non definitiva, ma l’unica ancora praticabile.
Nella sua battaglia quotidiana alla malattia, l’incrollabile fiducia nella vita. «Mi sono sempre detta che sono fatta per vivere, magari sgomitando un po’, ma per vivere». La prospettiva di nuovi polmoni le prometteva una vita migliore: «non ho mai pensato di non farcela. Vivevo giorno per giorno con la consapevolezza di essere in una situazione molto critica, ma con la certezza che prima o poi sarebbe arrivato anche il mio momento».
Un anno e 10 mesi di attesa nelle parole di Marcia scivolano a filo d’acqua. «Ho cercato di fare tutto quello che ancora mi era possibile fare: uscivo con gli amici, andavo al cinema, svolgevo le commissioni quotidiane, passavo un po’ di tempo con il fidanzato. Una settimana prima dell’intervento, che ho fatto nel luglio del 2001, ero al mare con mia mamma e mia zia che mi facevano fare il bagno e uscire la sera. In rianimazione la mia abbronzatura era invidiata dalle infermiere!».
La telefonata, in fine, arrivò. Marcia pose una condizione: «vengo purché non mi tagliate i capelli». Il chirurgo rise e accettò. L’operazione riuscì. Marcia ci era arrivata in buone condizioni e recuperò in fretta: «conta molto l’approcio che uno ha verso la malattia – spiega –, al di là del fatto clinico, che non siamo noi a poterlo cambiare. L’atteggiamento con cui si affrontano le cose cambia molto le prospettive. Io volevo ritornare a vedere le persone che mi erano state vicine anche quando stavo peggio. Volevo vedere la gente, ritornare a fare le cose, lavorare. Dovevo recuperare il tempo perso. Una delle prime cose che feci dopo il trapianto fu di comprarmi la bicicletta. Era una cosa che ormai non me la ricordavo più». Mentre la pensa, il suo viso s’increspa di luce poi ammorbidisce di dolcezza e mi pare di vederci l’espressione del bambino che scarta l’involucro colorato e luccicante di una caramella. Lei continua: «abituarsi a rifare le cose di tutti i giorni diventava un gioco. Prima sono tornata a fare quelle di sempre, poi ho iniziato a farne di nuove e che non avevo mai fatto».
Nel verbo “fare”, declinato in tutte le persone, i modi e i tempi, ripetuto per un limite che tende all’infinito, sta scritta la fame di vita di Marcia, che mi dice: «non c’è niente di sicuro e matematico», ma, come insegna il filosofo di Gorizia: «esser nati non è che voler continuare», perché «se mi è possibile una qualche speranza, c’è qualcosa per me». Michelstaedter Marcia non l’ha letto, ma sa come fare di se stessa fiamma e che «chi teme la morte è già morto». Per questo vive, a tutta vita, e vivrà.