Essere malati di fibrosi cistica per prima cosa significa spendere molta parte della propria esistenza curandosi. Considerato che la nostra aspettativa media di vita è di 37 anni e che le nostre giornate, tolto il tempo per le terapie, si riducono a meno di 24 ore, il problema tempo per noi è vitale.
Quando penso al futuro e non trovo le risposte, sento più forte il desiderio che la ricerca apra nuove porte, per me e per tutti quelli nella mia condizione. Cavalcare è il mio modo di mettere le ali ai pensieri. Salto in sella, abbandono la terra e per un istante mi sento libera dalla paura, perché la notte non porta consiglio, anzi, ingigantisce le ombre.
Se immagino un laboratorio di ricerca mi viene in mente la cucina di un grande ristorante: pulita, ordinata e soprattutto con una squadra di cuochi eccezionali. Io e i fornelli non siamo amici: l’unica volta in cui ho fatto la pasta mi sono bruciata il mento; preparando un caffè in camper ho bruciato la caffettiera e ho fatto fare la stessa fine alla padella dove tentavo di cuocere uno strudel.
I ricercatori della Fondazione FFC rappresentano per me gli chef della ricerca in fibrosi cistica, coloro che hanno gli strumenti per fare quello di cui io non sono capace: guarirmi. Garantire loro i mezzi, sostenerne i progetti, è dare la speranza di una vita normale a noi malati; aiutarci a rendere il nostro orizzonte più aperto e luminoso.