Era il 24 dicembre del 2015 e le festività natalizie erano appena iniziate…
Ogni volta che arriva Natale la sentiamo ancora, quella sensazione di spaesamento e di paura. C’è anche un po’ di rabbia e di amarezza.
Il sospetto di diagnosi per fibrosi cistica me l’hanno comunicato per telefono. E subito non ci siamo preoccupati più di tanto perché “Chi l’aveva mai sentita nominare la fibrosi cistica?”. Ci dissero che poteva trattarsi di un falso positivo, che non ci saremmo dovuti allarmare perché sarebbero seguiti degli accertamenti. Andammo a cercare la malattia su Google e unii i puntini: Alessandro in un mese di vita aveva preso pochissimo peso. Lo guardavo, piccolissimo, dentro all’ovetto e gli sussurravo: “Ma cosa ti sta succedendo?”.
La diagnosi poi è stata confermata dagli esami.
Noi siamo di Catania, ma ci siamo recati al policlinico di Messina per effettuare il test del sudore. Questo esame diagnostico, ad Alessandro, fu eseguito due volte perché la prima volta era stato invalidato dal momento che il campione era risultato insufficiente. Gli esami, la ripetizione degli stessi e l’attesa dei risultati sono stati un’agonia.
Le nostre speranze che fosse un falso positivo si infransero: la patologia di Alessandro era stata confermata.
Quand’è che avete iniziato a capire cos’è la fibrosi cistica?
Il 4 gennaio del 2016, quando fummo ricoverati tutti insieme: io, mia moglie, Alessandro e Chiara, la nostra primogenita che all’epoca aveva 18 mesi. Sono seguiti test genetici su tutta la famiglia, il primo ciclo di antibiotici per Alessandro e le istruzioni sulle terapie per contrastare l’avanzamento della patologia.
I medici hanno preferito tenere la famiglia unita perché Chiara era molto piccola e avrebbe forse reagito male a un distacco prolungato dalla mamma. Mia moglie, poi, all’epoca era molto fragile: lo stato di salute di Alessandro aveva acuito la depressione post partum di cui già soffriva.
Che ricordo hai di quei giorni ospedale?
Ero in uno stato di confusione e disperazione. Mi chiedevo: “Ma come è possibile che in tutta la mia vita io abbia evitato gli ospedali e mio figlio di appena un mese abbia già incontrato decine di medici?”.
Chiara era molto piccola e io tentavo di distrarla in tutti i modi: portandola in giro a vedere questo e quell’altro, avanti e indietro per le
corsie…
Siamo stati catapultati in una dimensione che non potevamo sentire nostra, in una di quelle tragedie che di solito capitano agli altri. Quando ti dicono “Ma sai cos’è successo al figlio di…?” e tu per un momento li compatisci, te ne dispiaci, anche con trasporto, ma l’attimo
dopo ti rendi conto che sei fortunato, che i tuoi figli sono in salute, che puoi tornare alla tua vita.
Quei giorni di ricovero hanno però segnato anche un momento di svolta. Ho avuto la possibilità di parlare quotidianamente con i medici, di avere una risposta per ogni mia domanda e constatare la gravità della situazione. Insomma, dopo aver toccato il fondo, ho trasformato in forza la disperazione. Mia moglie e i miei bambini avevano bisogno di me e io non avevo alternative: dovevo essere forte.
Come sta ora tua moglie?
Molto meglio, grazie. Ci siamo fatti aiutare e ora siamo molto uniti. Per diverso tempo non ha voluto accettare la diagnosi ed è vissuta nel senso di colpa. Ma colpevole di cosa? Di ignorare l’esistenza della fibrosi cistica?
Nessuno ce ne aveva mai parlato: non i medici di base, non i ginecologi, non le ostetriche. Non un poster, un qualsiasi materiale informativo che nelle sale d’attesa degli ambulatori medici ci mettesse la pulce nell’orecchio o che ci informasse sull’esistenza del test del portatore sano. Spero che la mia testimonianza sia importante ai fini della promozione della campagna di sensibilizzazione “1 su 30 e non lo sai”: vorrei che nessuno, nessuno, vivesse più il nostro calvario. La diagnosi, quando arriva, mica chiede il permesso. È uno tsunami che spazza via tutto. Io ho avuto la forza e la lucidità di riprendere in mano la nostra vita, ma sono tante le coppie e le famiglie che soccombono.
Hai detto che “vi siete fatti aiutare”: in che senso?
Abbiamo intrapreso insieme un percorso di terapia di coppia e lei, da sola, è stata in terapia per un certo periodo. Ci è servito molto, inoltre, conoscere genitori nella nostra stessa situazione. All’epoca della diagnosi avrei tanto voluto una spalla amica sulla quale disperarmi, alla quale aggrapparmi, insomma, una persona che c’era già passata. Con il tempo ho conosciuto Michela Puglisi, la responsabile della Delegazione FFC Ricerca di Catania Mascalucia, anche lei con una figlia con la patologia di Alessandro. Michela è una donna fortissima che è stata ed è tutt’oggi di grande conforto e ispirazione.
Ora sono io ad essere il riferimento per molti neo genitori. Sono oggi un volontario impegnato attivamente nella raccolta fondi e con me porto sempre i messaggi di Fondazione sull’importanza della ricerca e della diffusione della conoscenza sulla fibrosi cistica.
Ho notato che non usi mai il termine “malattia”: è casuale?
Preferisco la parola patologia perché malattia porta con sé l’aggettivo malato. Patologia mi dà il senso di qualcosa di grave, sì, con cui tuttavia si può e bisogna convivere, senza dovercisi identificare. Alessandro è tra coloro che non possono assumere Kaftrio. Evidentemente, non posso affrontare con leggerezza il suo stato di salute, ma non possiamo neanche vivere in funzione della fibrosi cistica. Come dico sempre, un bambino deve respirare la vita e non cercare di vivere respirando. Vorrei che, come tutti i suoi compagni, potesse vivere una vita quanto più normale e spensierata. Per questo dobbiamo alimentare la speranza, lavorare affinché la ricerca vada più veloce, concentrare tutte le energie in un’unica direzione, e, come mi disse la dott.ssa Nicoletta Pedemonte, vice direttrice scientifica di FFC Ricerca, “Anche il momento di Alessandro, arriverà”.
Che bambino è Alessandro?
Alessandro è forte e solare, amante degli animali e della natura che guarda con occhi ingenui e affascinati. Spesso lo prendo da lui
l’entusiasmo per andare avanti con il sorriso. È un bambino molto amato dalla famiglia, dalle insegnanti e dai compagni di scuola. Ha un’insegnante di sostegno che lo assiste nell’assunzione delle medicine in determinati orari. Per lui, ovviamente, i farmaci fanno parte della sua routine e so che vive senza angoscia anche questi momenti che lo rendono un po’ diverso dagli altri bambini.
E Chiara?
Chiara a giugno avrà 10 anni ed è una bambina a cui la fibrosi cistica ha tolto molto. Lo so, lo sappiamo: per un lungo periodo le attenzioni si sono concentrate su Alessandro e l’abbiamo fatta crescere in fretta. Il mutismo selettivo di cui oggi soffre è una delle conseguenze dello tsunami di cui prima. Chiara non parla con le insegnanti e gli adulti, solo con i bambini. La sua situazione è molto complessa, ma abbiamo trovato grande collaborazione da parte del corpo docente e negli ultimi tre anni la psicoterapeuta che l’ha presa in cura sta facendo un ottimo lavoro con lei. A Natale le è stata assegnata una parte durante la recita scolastica e lei l’ha sussurrata velocemente al microfono. Non si sono capite le parole, ma fa lo stesso: per lei è stato un enorme traguardo e io mi sono commosso.
E tu, Giorgio, come stai?
Eh… Io oggi sono molto stanco. Sento il peso di tutti questi anni e ora avrei davvero bisogno di una pausa perché è faticoso essere “quello forte”. Sono stati anni sfidati, ma che ci hanno anche regalato tanto. Ci hanno unito, ci hanno reso persone migliori. Per esempio, una banalità in confronto a tutto il resto, va detto che ho superato la mia folle paura per gli aghi… Ho dovuto, dopo che mio figlio era diventato un puntaspilli! Ora ci rido sopra e lo racconto ogni volta che vado a donare il sangue, ma all’inizio per me è stato difficilissimo. Il motore che mi fa andare avanti è, lo dico di nuovo, la speranza. Sapere che ogni giorno un bambino inizia ad assumere Kaftrio e passa da avere un futuro già scritto a un destino tutto da riscrivere mi rincuora e mi dà coraggio perché so che “Anche il momento di Alessandro, arriverà”.