Ci sono Niccolò e Filippo sulla copertina dell’ultimo Notiziario FFC Ricerca, il numero 63. Niccolò regge sul suo viso la pep mask e Filippo lo guarda. Un’azione quotidiana, che li accompagna e li fa stare vicini da quando erano piccoli.
Riccardo Reggiani è il loro papà, già volontario della Delegazione FFC Ricerca di Milano.
Quando è stata la prima volta in cui hai sentito parlare di fibrosi cistica?
Dopo circa un paio di settimane dalla nascita di Niccolò arriva una telefonata dall’ospedale. Ci comunicano che nostro figlio deve fare degli accertamenti: gli esami di routine avevano evidenziato dei valori borderline per una certa malattia genetica. Senza sapere cosa aspettarci, e per di più spaesati come lo sono tutti i neo genitori, ci rechiamo in ospedale e per la prima volta in tutta la nostra vita la sentiamo nominare. La fibrosi cistica.
Durante questo primo incontro ci consigliano di non andare su internet a cercare informazioni: 13 anni fa non era facile come lo è oggi, non c’erano gli smartphone, ma è quello che ho fatto appena rientrato a casa.
E cosa risultò dalla ricerca?
Che Niccolò poteva essere un falso positivo. Mi aggrappai a queste due parole per giorni: falso positivo. Ricordo come fosse ieri la mattina in cui, dopo tutti gli esami di accertamento, ci consegnarono la diagnosi definitiva. Prima di noi c’era una ragazza, una mamma, la saprei riconoscere ancora oggi se la incontrassi. Uscì dall’ambulatorio medico con un sorriso sollevato e fiero. Mi sono detto “Ecco, vedi, i falsi positivi esistono. Sicuramente lo siamo anche noi, lo è anche Niccolò”.
Invece è arrivata la diagnosi.
Si è aperta una voragine sotto i nostri piedi e abbiamo iniziato a temere tutto: i batteri, i virus, gli imprevisti. Il terrore che da un momento all’altro potesse succedere qualcosa a Niccolò che ci avrebbe trovati impreparati mi tormentava. Alcune sere, per dimenticanza, per stanchezza, prima di prenderlo in braccio non mi toglievo la felpa che avevo usato per stare fuori casa e il senso di colpa mi logorava per i diversi giorni a seguire.
Niccolò era un bellissimo bambino. Tutti i genitori lo dicono del proprio figlio, ma Niccolò aveva dei lineamenti così delicati… Io e mia moglie lo analizzavamo e poi ci guardavamo stupiti: è perfetto! Cos’ha che non va? Fa quello che deve fare un neonato: piange quando ha fame, piange quando ha sonno, si guarda intorno, scopre il mondo che lo circonda. Cosa sta succedendo dentro di lui che noi non possiamo vedere?
Paradossalmente, quando a distanza di qualche mese dalla diagnosi arrivarono tutti i presìdi medici, ci sentimmo sollevati. Finalmente potevamo intervenire, aiutare, fare la nostra parte.
Il Centro FC di Milano è sempre stato un punto di riferimento importante e non ci siamo sentiti mai soli nella gestione delle terapie, della prima tosse, della prima febbre. Lentamente siamo passati dalla paura della fibrosi cistica, alla convivenza con la malattia.
Quando avete maturato la scelta di dare a Niccolò un fratello?
Nel nostro sogno di famiglia Niccolò non sarebbe stato figlio unico. Certo, la diagnosi di fibrosi cistica ci aveva colto impreparati, ci aveva resi arrabbiati, aveva scombinato le carte, ma neanche troppo. Dopo la confusione iniziale, il senso di impotenza e la paura, mia moglie cercò informazioni e mi comunicò che esisteva la possibilità di avere una seconda gravidanza con procreazione medicalmente assistita seguita da diagnosi genetica sull’embrione
prima dell’impianto. Abbiamo scelto di affidarci alle possibilità che il progresso medico scientifico ci aveva messo a disposizione e dopo due anni e mezzo dalla nascita di Niccolò è arrivato Filippo.
Hai usato il termine arrabbiati. Arrabbiati con chi?
Dopo la diagnosi continuavo a chiedermi perché, ma non era un perché arrendevole. Il mio era, ed è un “perché non me lo avete detto prima”. Io sto facendo e ho fatto il massimo per far sì che mio figlio possa convivere con la malattia nel migliore dei modi possibili, ma voi, medici, Stato, che sapevate che esisteva questa malattia, perché non ci avete consigliato il test del portatore sano di fibrosi cistica? Anche a pagamento, l’avremmo fatto.
Per questo motivo sostengo la campagna “1 su 30 e non lo sai”: io e mia moglie siamo quell’1 e vorrei che nessun genitore lo dovesse più scoprire dopo la nascita di un figlio. Per poter maturare una scelta informata, ragionata, libera è necessario che si parli di fibrosi cistica e che il test del portatore sano sia accessibile a tutti coloro che desiderano creare una famiglia.
Ci racconti com’è il rapporto tra Filippo e Niccolò?
La poca distanza di età fa sì che siano molto complici. Sono inoltre, entrambi, molto sportivi e competitivi. Per Filippo, Niccolò è un idolo, il fratello maggiore che tutto può, che fa cose da grande. Nascere con la fibrosi cistica e con un fratello con la fibrosi cistica fa entrare nella quotidianità l’aerosol, la pep, la tosse, le flebo, le pastiglie, i ricoveri. Addirittura durante una delle tante crisi di pianto tipiche dei bambini, forse dopo un bisticcio tra fratelli, Filippo anni fa ci disse che voleva fare anche lui “la mascherina”. Per loro è un momento di ricongiungimento serale, di attenzione, quasi di coccola. È stato forse più complesso per noi genitori, sia da un punto di vista pratico che emotivo, abituarci alla routine. Noi abbiamo conosciuto la vita senza la malattia, loro no.
Che sport praticano?
Di tutto! Premetto: per noi l’educazione sportiva è importantissima. Da subito i medici del Centro ci dissero che per la condizione di Niccolò, per la sua capacità polmonare, sarebbe stato fondamentale praticare sport e ci siamo impegnati affinché entrambi crescessero con la cultura dell’attività fisica, all’aria aperta soprattutto. Sono entrambi nella stessa squadra di sci, lo Sci Club Rongai Pisogne, e sono impegnati in trasferte e gare tutte le settimane. Questa passione condivisa ha fatto sì che allenatori e compagni di squadra siano diventati una seconda famiglia. Hanno sempre fatto in modo che Niccolò non si sentisse solo, neanche durante i ricoveri, facendo diventare un appuntamento fisso la video chiamata serale con tutta la squadra.
Niccolò è tra il 70% dei malati in Italia che può prendere Kaftrio.
Il Centro che segue mio figlio iniziò a parlarci di questo nuovo farmaco alla fine del 2020, ma senza illuderci. Sapevamo che non copriva tutte le mutazioni e che c’erano dei limiti di età per l’assunzione. Un giorno mia moglie mi chiamò urlando dalla gioia: Niccolò era entrato nel protocollo per Kaftrio, aveva appena ricevuto la chiamata.
Nei tre mesi successivi mio figlio venne sottoposto a decine e decine di esami e purtroppo risultò che aveva i polmoni completamente intasati di muco: era necessario un immediato ricovero. La condizione di salute in cui era non era compatibile con l’inizio dell’assunzione del nuovo farmaco, ma la preoccupazione che attanagliava la sua mente di pre-adolescente era quella di non riuscire a disputare una gara di sci alla quale teneva tantissimo. Lui è un ragazzo molto tranquillo: ha sempre accettato tutti gli esami, di farsi bucare le braccia, di ingurgitare pastiglie di qualsiasi tipo senza lamentarsi mai. Solo quella volta, al primo giorno di ricovero, disse alla dottoressa: “Se non mi fate uscire di qui tra 10 giorni spacco tutto”. Inutile dire che ci scappò un sorriso di tenerezza.
La cura antibiotica diede i risultati positivi sperati e finalmente arrivò il primo giorno di Kaftrio. E qui c’è un aneddoto divertente. Mia moglie voleva immortalare un momento per noi così importante e così c’è un video in cui Niccolò mette in bocca la prima pastiglia. La prima della sua vita, quella che abbiamo aspettato da una vita. Prova ad ingerirla e la sputa: “Non ce la faccio, è troppo grande” e si sente mia moglie dire “Eh no! Eh no! Siamo arrivati fino a qui e adesso questa la butti giù!”.
È riuscito a disputare la gara di sci, dove è arrivato quarto, e dopo pochi giorni ha iniziato a espettorare. Il farmaco stava già funzionando.
Lo vedi un futuro senza la fibrosi cistica?
13 anni fa, quando è nato Niccolò, l’aspettativa di vita era di 25 anni e si iniziava a parlare del trapianto polmonare quando i pazienti ancora erano bambini. Non erano nel mirino un farmaco come Kaftrio e una campagna di informazione come “1 su 30 e non lo sai”. Presto anche il 30% dei malati ancora orfani di terapia riceverà un aiuto dalla medicina.
Ho imparato che la ricerca non segue il nostro tempo, va più veloce e perciò sì, sono sicuro che un giorno non si parlerà più di fibrosi cistica. E di certo la Fondazione chiuderà.
Lo diciamo sempre anche noi, che lavoriamo per non avere un lavoro. Ma come hai conosciuto la Fondazione?
Poco dopo la nascita di Niccolò sono entrato nella Delegazione di Milano. All’inizio facevo fatica a nominare la fibrosi cistica e a parlarne. Poi sono arrivati i primi eventi e le persone ascoltavano la mia testimonianza, sostenevano la ricerca con le donazioni. Avere come presidente Matteo Marzotto mi ha fatto sentire in mani sicure: la persona che è e la sua esperienza mi hanno dato da subito quel senso di famiglia, di integrità e di professionalità di cui avevo bisogno.
Le tue parole sono cariche di ottimismo, di positività, di vita. Come si fa a non demoralizzarsi, soprattutto all’inizio?
Io ho scelto di farmi seguire da uno psicoterapeuta perché ho percepito la mia impreparazione emotiva e psicologica di fronte a un evento così forte. Sicuramente mi ha aiutato molto. Mi sento di dire, però, che sin dall’inizio è stata soprattutto una questione di tempo. Niccolò non ne aveva perché le statistiche gli avevano affibbiato già una data di fine vita. Non potevamo farlo vivere nella disperazione, nell’angoscia, nella paura. Ci metterei un attimo a far piangere, a impietosire, ma io sono concentrato su come fargli fare le stesse cose che fanno gli altri, fargli vivere una vita il più normale possibile, pur convivendo con una malattia così grave.
Come terapia per molto tempo ho usato la subacquea. Immergermi mi permetteva di estraniarmi da tutto, l’ambiente marino mi teneva vigile e concentrato. Uno dei primi eventi che ho organizzato a sostegno di Fondazione è stato un “battesimo del mare”, cioè una prima immersione per 80 persone. All’evento, davanti a una platea di subacquei e sostenitori, dissi: “Un subacqueo conosce la paura di rimanere senza aria. Per un malato di fibrosi cistica è una condizione di vita costante”.
L’estate scorsa io e Niccolò ci siamo potuti immergere insieme, per la prima volta. È stata un’emozione immensa per me, che ho usato per anni il mare come terapia, e una vittoria enorme per lui. Non vedo l’ora di scoprire quali altre la vita ha in serbo per noi.
Questa intervista compare nel Notiziario di Primavera FFC Ricerca N. 64.
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