Elvira Sondo è una ricercatrice, è una biologa, è una scienziata e lavora nel laboratorio di Genetica Medica dell’Istituto G. Gaslini di Genova. Nel suo gruppo sono altre sei grandi donne Nicoletta Pedemonte, Emanuela Pesce, Valeria Tomati, Valeria Capurro, Cristina Pastorino, Mariateresa Lena, che si occupano di fibrosi cistica. Per Elvira Sondo è proprio il gruppo la forza della sua ricerca: la scienza ha un valore perché è condivisa ed è dall’unione delle competenze che si possono ottenere nuove ed efficaci strategie terapeutiche per la fibrosi cistica.
Abbiamo intervistato la dottoressa Sondo in occasione della Giornata Internazionale per le Donne e le Ragazze nella Scienza per parlare con lei non solo di scienza ma anche di donne nella scienza. C’è una parola-chiave che ci ha detto subito, prima ancora di cominciare la chiacchierata: passione, per fare la ricercatrice ci vuole passione. “Che devi avere nel cuore e che è quello che ho ritrovato nella Fondazione, nelle famiglie e nelle persone con FC che incontro ogni giorno”, racconta.
Da piccola, quando mi chiedevano cosa avrei voluto fare come mestiere, rispondevo la biologa. Non il medico, proprio la ricercatrice biologa. Mi vedevo chiusa in laboratorio a cercare di rendermi utile per il prossimo. Che non vuol dire essere isolata, anzi: ritengo sia giusto per noi ricercatori conoscere ciò che c’è al di là del singolo esperimento. E in questo ringrazio il mondo FC e la Fondazione perché ci dà l’occasione di conoscere i pazienti, le loro storie, le loro famiglie; di partecipare attivamente alla raccolta fondi; di conoscere altri ricercatori, medici, colleghi in occasione dei congressi. È il lavoro dei miei sogni. E spero di continuare a portarlo avanti perché è quello che risceglierei mille volte.
Sì, sono 17 anni che lavoro al Gaslini e 17 anni che mi occupo di fibrosi cistica. L’interesse per la scienza è esploso alle superiori grazie al mio professore di scienze. Poi, dopo la laurea, ho mandato il cv a vari laboratori e il prof. Galietta, campano come me, mi ha dato la disponibilità per un colloquio conoscitivo. Lo abbiamo fatto in stazione a Salerno, lui era in zona per le vacanze estive. C’è stata subito sintonia, non mi è servito del tempo per riflettere, ero pronta per questa nuova avventura. Così ho lasciato la mia famiglia a Trentola Ducenta in provincia di Caserta e ho intrapreso un lungo viaggio verso Genova, dove non conoscevo nessuno ma dove ho trovato una nuova, altrettanto autentica, famiglia. Una volta arrivata in laboratorio non me ne sono più andata, quell’incontro è stato un segno del destino.
Dal punto di vista della ricerca, all’inizio mi occupavo di valutare l’azione farmacologica di alcune molecole su cellule in coltura opportunamente modificate in modo da produrre CFTR. Si parla di cellule immortalizzate e sono quelle che si usano comunemente negli esperimenti di routine. Il nostro obiettivo era testare i vari composti per vedere se qualcuno era capace di influenzare il trasporto di cloro mediato da CFTR.
Poi negli anni mi sono avvicinata sempre più alla clinica e adesso negli esperimenti uso cellule provenienti direttamente da pazienti con mutazioni rare di CFTR, su cui valutiamo l’effetto dei modulatori già in clinica per altre mutazioni e di nuove molecole come ARN23765. ARN23765 è un correttore molto potente di CFTR, scoperto nell’ambito del progetto strategico Task Force for Cystic Fibrosis di FFC Ricerca, un vero successo per la Fondazione.
I miei studi attuali si inseriscono nel campo della medicina personalizzata, un approccio che consente a ogni paziente di curarsi con la migliore opzione farmacologica per lui.
È un futuro molto incoraggiante in fibrosi cistica. Ci sono tantissime mutazioni rare per cui non c’è ancora una cura e di cui non si è nemmeno ancora ben capito il meccanismo d’azione. Questo approccio potrebbe aprire una speranza per moltissime persone. Con Kaftrio ci sono stati risultati molto significativi per le persone che lo possono prendere, ma noi cerchiamo di trovare una terapia anche per tutti gli altri, che una cura ancora non ce l’hanno. Vogliamo fare in modo che tutti i bambini con FC diventino adulti, possano realizzare i loro sogni e vivere la vita che desiderano. Il nostro obiettivo è trovare una cura per tutti.
È un progetto in cui credo molto, in cui tutto il gruppo con cui collaboro crede molto. Ci tengo a dirlo, raccontando di me è come se raccontassi di tutte noi. Il mio lavoro è il lavoro di tutte, non ci sono risultati singoli ma condivisi. Certo, poi si cresce individualmente e ognuna fa il suo percorso, ma alla fine rimaniamo una squadra unita, dentro e fuori dal laboratorio.
Per il progetto, finora abbiamo raccolto diversi campioni di cellule tramite il brushing nasale, cioè lo spazzolamento della mucosa nasale simile a quello dei tamponi per Covid-19. Le cellule possiedono tutte mutazioni rare di CFTR e vengono trattate con diversi composti ad azione farmacologica; l’attività di CFTR viene poi valutata tramite esperimenti di elettrofisiologia. Alla fine, scriviamo delle relazioni dettagliate che i clinici useranno per fare le valutazioni del caso. È sempre emozionante quando le cellule rispondono bene a un trattamento, si apre una speranza.
Nel 2020 mi è stata data l’opportunità di essere la responsabile del Servizio Colture Primarie, il mio primo incarico importante! Si tratta di mettere a disposizione dei ricercatori della rete di Fondazione una raccolta di cellule ottenute dall’epitelio bronchiale di pazienti sottoposti a trapianto polmonare, con fibrosi cistica o altre patologie. Le cellule in genere vengono usate per testare farmaci e valutare nuove strategie terapeutiche per la FC.
Sono molto contenta di questo incarico, mi dà la possibilità di stringere rapporti con diversi ricercatori, confrontarmi e collaborare con altre realtà scientifiche. Ed è un modo per sentirmi ancora una volta vicina alle persone con FC: è difficile non farsi coinvolgere dalla storia dei donatori, rimanerne distaccati, io non ci riesco.
Non ho mai fatto ricerca solo per me stessa, ho sempre cercato di fare qualcosa di utile per gli altri e di lavorare per il gruppo. Siamo sette donne che lavorano in stretta sintonia e siamo interscambiabili, se una si ammala di Covid-19, c’è un team pronto a sostituirla. Anche se il progetto sulla medicina personalizzata l’ho vinto io, tutte sono indispensabili per raggiungere l’obiettivo finale.
Essere donna in campo scientifico, che domanda complessa! Non è facile, è un lavoro duro e ci vuole tantissima grinta per farlo perché la competizione con gli uomini è altissima, bisogna impegnarsi il doppio, dare sempre qualcosa di più degli altri per dimostrare di essere all’altezza del ruolo. Raramente veniamo giudicate per quello che valiamo davvero.
Il mio percorso non è stato semplice, venivo da un piccolo paese, ero lontano da casa, mi sono trovata in una realtà dove non conoscevo nessuno e in più sono una donna. Ma ho perseverato, e sono contenta di averlo fatto. Mi sveglio ogni mattina pensando che ho il lavoro più bello del mondo e voglio continuare a farlo finché ne avrò la possibilità. Tornando indietro non lo cambierei, pur sapendo le difficoltà, il lungo precariato e i weekend passati in laboratorio o a studiare.
Mio marito me lo dice sempre: ogni giorno si vede che sono felice di andare a lavorare. È vero, mi sento fortunata, volevo fare la ricercatrice e faccio la ricercatrice.
Di non mollare mai, di non abbattersi alle prime difficoltà, di andare oltre i propri limiti perché è un lavoro che dà tante soddisfazioni e se è una scelta dettata dal cuore non si vorrà mai tornare indietro.
Un po’ come ho fatto io. Mio padre mi ha insegnato a dare il meglio di me stessa, mi ha detto che se ero decisa dovevo continuare per la mia strada e non voltarmi indietro. Era convinto che avrei fatto grandi cose e sarei stata utile agli altri. Aveva ragione e sono sicura che da lassù è orgoglioso.