Incontri il padre e sai da dove viene il fuoco d’artificio che è Rachele. Come lui si esprime in fretta, comunicando da ogni poro, suscitando un’immediata simpatia. Da lui ha ereditato la passione per la velocità, le invenzioni, il movimento. Hanno idee che li percorrono, illuminando e adombrando l’espressione cangiante dei loro volti. Poi c’è Monica, mamma e insostituibile compagna, tenera e apprensiva eppure non meno ferma e tenace, ma più mediata e seria, che accudisce ascolta e organizza, perché tutti in famiglia dipendono da lei. Sono in tre, più Pimpy l’infermierina, la cagnetta settenaria. Vivono a Cusano Milanino, appena fuori Milano. Ci hanno concesso una triplice scoppiettante intervista in cui s’intrecciano il punto di vista di un babbo struzzo, una mamma ansiosa e una figlia diciannovenne che ha la fibrosi cistica e tutt’altro per la testa su cui focalizzare la propria attenzione.
L’arrivo
Il treno è in orario. Si arena in una stazione affollata nonostante l’afosa mattina di luglio, difficile da spiegare anche a gesti. Ricevo l’sms di Rachele «ti aspetto fuori. Ho una jeep bianca con una grande stella». In azienda, sono tutti al lavoro. Infiliamo le scale che portano agli uffici. «Papà, siamo arrivate» dice Rachele. «Chi mi hai portato?» sento rispondere, mentre mi avvicino alla porta dell’ufficio. Mi ci affaccio e Luca Somaschini si alza per stringermi la mano. «Ho accettato l’intervista solo perché ti chiami Rachele. Cosa vuoi da me?», domanda incrociando le braccia. «Chiacchierare», rispondo. E così iniziamo.
Aderenza alle cure
«Di quello che dicono i medici si prende tutto e poi si screma – inizia Luca. Ogni famiglia ha la propria storia e sta all’intelligenza delle persone declinare le cure nella vita di tutti i giorni. Non c’è n’è stato uno, in 19 anni, in cui Rachele non abbia fatto la terapia», racconta, e ne attribuisce subito il merito alla moglie. A loro figlia ricordano sempre: «adesso che puoi gestirti gestisciti bene. Sei maggiorenne anche per avere la responsabilità di quello che fai». Rachele ride e aggiunge una delle espressioni preferite del padre: «quando esco con i miei amici mi ripete sempre “e stai attenta a quello che fai. Guarda che ci metti un attimo a passare da così a così”. In realtà io guido, non bevo». Prosegue Luca: «nella sfiga Rachele è fortunata. La malattia avrebbe potuto presentarsi in forma più aggressiva. Ad ogni modo non bisogna abbassare la guardia. L’ambiente in cui si vive è importante. Creo delle situazioni. Tutti i sabati, alle 12, si parte per il mare o la montagna e si rientra la domenica sera. Noi ce la mettiamo sempre tutta perché ogni cosa vada a suo vantaggio, così da non poterci recriminare niente». Non sono genitori imperativi, alle imposizioni in negativo preferiscono sollevare la domanda: «per questa cosa vale la pena rischiare?». Rachele è abbastanza decisa da riuscire a fare quello desidera quasi sempre, dopo tutto, come dice Monica, «ognuno deve fare le proprie esperienze. Posso dare solo consigli. E ne do tanti». «Tanti tanti sempre e comunque», completa Rachele.
La diagnosi
«Dopo un mese, ci ha chiamato la clinica dove è nata per dire che bisognava fare ulteriori test – ricorda Luca. Per lavoro ho da fare tutti i giorni a inventare e anche allora mi sono detto: “chissà che cazzo si sono inventati”. Invece mia moglie piangeva. «Per me una chiamata dopo un mese per fare un esame era già qualcosa – dice Monica. Il dramma è iniziato dalla telefonata». Luca riprende il suo racconto: «siamo entrati nei sotterranei dell’ospedale. C’erano le porte in lamiera, una cosa oscena – lascia la scrivania per mettersi faccia al muro. Ero in questo atrio di 70 anni fa, guardo il muro e mi sento incanalare dentro qualcosa. Allora capisco che C’È qualcosa – dice agitando le braccia. Mi sono sentito risucchiare in un tunnel e ho iniziato a fare il serio – conclude voltandosi. All’inizio non sapevi nulla. Eri in attesa. “Prima o poi succederà qualcosa” pensavi. E invece niente. Bisogna non pensare troppo. Non serve. La mia mutazione non si è conosciuta per dieci anni». Poi Monica aggiunge: «ora, andando in clinica, rivedi l’inizio e ti riconosci negli sguardi dei genitori giovani, che vagano con gli occhi sbarrati e soffermano lo sguardo sui ragazzi più grandi. Capti i loro pensieri e ti verrebbe da aiutare, dire qualcosa per fare coraggio. Anche per questo abbiamo accettato di farci intervistare».
Ricerca di aiuto
«Ho passato i primi mesi a cercare conforto o qualcosa di diverso dal centro di cura», ricorda Monica. Luca interviene: «non c’è nessuno che ti dice niente. Devi interpretare. Capire tu. In un primo momento si andava alle classiche convention: c’era da spararsi. Da una parte è corretto essere informati, di contro hai a fianco persone con i loro problemi più o meno gravi… e poi magari non li vedevi più», mentre lo dice spalanca gli occhi e tende teatralmente in avanti la mano sul tavolo. «L’ambiente che frequenti non ti dà sollievo, il che non aiuta, perché che tu lo faccia vedere o meno il chiodo fisso ce l’hai. Io sono stato fortunato a incontrare Monica, che mi ha permesso di dedicarmi al lavoro e non pensare. La cosa è stata anche premiante. Inoltre, a darci una mano, c’è stata mia mamma, che valeva per tutti». Rachele si schiarisce la voce e spiega: «la nonna Elsa è una vecchio stampo: abbastanza squadrata, rigida, precisa, super metodica». Durante la sua infanzia si è molto presa cura di lei, perché Rachele, oltre ad essere nata con la fibrosi cistica, nei primi due anni non mangiava. «Se vuotava un biberon da 20 cc al giorno era una vittoria» ricorda Monica. «A un mese dalla nascita aveva preso 100 grammi. A un anno pesava 8 kili. Non le interessava mangiare». «Invece adesso mangio anche per allora» commenta Rachele.
La parte del papà e quella della mamma
Luca e Monica stanno insieme da 35 anni. Si sono incontrati quando avevano rispettivamente 13 e 17 anni. Sono stati fidanzati per dieci. Quando si sono sposati sognavano una famiglia numerosa. Non è stato così. «Abbiamo avuto un percorso di vita con pochi bassi e molti alti – racconta Luca. Nell’81 non avevo niente. Studiavo e lavoravo. Nell’84 mi sono messo in proprio. Abbiamo costruito con impegno. Io altri due figli li avrei fatti. Quando Rachele non c’è sembra quasi di non avere niente da fare». Monica è d’accordo. Anche per quanto riguarda l’educazione di Rachele la figura dell’uno compensa quella dell’altro. «Io e Luca abbiamo due modi diversi di dire la stessa cosa. Ho avuto una mamma con cui non potevo parlare e così ho fatto il possibile per avere un dialogo aperto con mia figlia. Non sono sua amica e non mi piacciono i sotterfugi, ma sa che qualsiasi cosa succeda non mi scandalizzo di nulla». La gestione della malattia ognuno l’affronta come può. «Mio marito è un po’ struzzo», dice Monica. Lui si difende: «sono uno scettico, non credo a nessuno. Non voglio sapere gli altri cosa fanno. Anche come società non m’interessa. Preferisco guardare quello che posso fare io. Non vado a leggere niente, solo Paul Quinton, ché è uno giusto. Ho già una moglie impegnata al cubo, talmente assidua, da permettermi di fare da supervisore. Ho sempre fatto la parte che fa finta di non dare troppo peso alla malattia. È difficile, ma bisogna, perché comunque non cambia niente. Cosa posso fare? Il problema grave è l’incapacità di agire, di fare qualsiasi cosa: è un tunnel che è un buco nero. Non sono fatalista, faccio tutto con la testa. Anche a Rachele ho insegnato a lanciarsi, dandole tutte le istruzioni al massimo della mia esperienza, che non è stata poca in qualsiasi campo, perché ho sempre cercato di primeggiare e per farlo devi cimentarti».
Avere paura
«La fibrosi cistica non fa paura – sostiene Rachele – rompe le balle. Capita. Amen. Mi toglie tempo in cui potrei fare dell’altro che curarmi e poi sottintende un’idea di costrizione che detesto. Un mio carissimo amico, che c’è sempre per qualsiasi cosa ed è molto sensibile, inizialmente non capiva come potessi essere felice avendo una malattia. Sembrava si aspettasse dovessi essere prostrata o comunque una persona triste. In generale i miei amici si interessano, non sono spaventati, sono attivamente partecipi, molto attenti e sensibili. Guardano quello che fa la mamma e si ricordano al mio posto di quando devo prendere i farmaci». «Essere nelle mani di persone che non ti danno una sicurezza, questo fa paura – dice Luca. Sentirsi in balia delle opinioni. L’assenza di relazioni personali con i medici. Essere un numero. Le risposte di protocollo le leggo da solo». Interviene Monica: «“ma farà mai qualche domanda?”, mi chiedevo quando era più piccola. La cosa mi spaventava. Si ha paura del limite temporale, che le cose possano trascendere il nostro controllo improvvisamente, perché ti sembra non cambino mai, ma non è così, perciò fai tutto quello che puoi perché non succeda. Lei si è sempre adeguata a tutto ed è stata sempre così: con l’argento vivo addosso».
Dire la verità
Monica ammette: «non ho mai nascosto la verità». E a un certo punto le domande sono arrivate. «Quando mi ha chiesto se era vero che l’aspettativa media di vita fossero 19 anni faceva le medie. Le ho spiegato che non era così per tutti e le ho anche detto molto sinceramente che non sapevo se sarebbe stato il suo caso o no. Quando uno dice le cose come stanno sono anche meglio. Non serve nascondersi». Rachele è cresciuta serena, accettando la propria condizione, nutrendo grande ammirazione e un’immensa fiducia verso i suoi genitori. Luca puntualizza: «una cosa importante, a mio giudizio, è che la terapia e tutto quello che uno fa per curarsi deve essere fatto alla luce del sole e anche ridendo e scherzando. Il soggetto non si sente discriminato e diventa una normalità. Mai nascondere, al contrario, far vedere, prenderla per gioco, tanto non cambia niente». «Della serie io l’antibiotico e le mie amiche tutti al mare» traduce Rachele. Poi Luca conclude: «questa è una malattia, ce ne sono tante altre. Ognuno ha i propri problemi e ci si deve adattare per conviverci al meglio. Si vive alla giornata».
Rachele
Parli con Rachele e la fibrosi cistica scompare. Gli amici, l’amore, le vacanze, i libri del liceo da rivendere le danno abbastanza da pensare. Non fosse per quel just breath tatuato su una costola, utile ad essere postato sui social per generare consapevolezza della malattia, e che tanto rimane nascosto, della malattia non c’è segno. Conclusa la maturità resta la spiaggia sconfinata del tempo dell’università con le sue promesse. «Non so cosa mi piacerebbe fare da grande – dice Rachele. Ogni cosa che penso ha dei contro. Devo trovare quella che ne ha meno». È sveglia, pratica e con un pizzico di disincanto, che non fa difetto di entusiasmo però. «Mi piacciono le cose movimentate: ballare, sciare, guidare, fotografare, la velocità. Tutto quello che è a motore mi attira. È il gene che mi ha trasmesso mio papà, che è un ex pilota. Ho la patente della moto, della macchina e quella nautica». La bambina che a cinque anni guidava il quad, oggi doma un motard con qualche incursione sulle auto da corsa, d’epoca e non. Mentre dribla il traffico cittadino dice: «ho comperato un paio di libri da leggere in vacanza. Uno è di Virginia Woolf Una stanza tutta per sé». Penso al concentrato di contraddizioni e sorprese che è Rachele, alla spensieratezza e alla curiosità dei suoi 19 anni, al sentiero che ha percorso e che le sta davanti per emanciparsi dalla malattia e nella vita. Certo è sulla buona strada e fa luce abbastanza perché la stella della fibrosi cistica resti oscurata.