La diagnosi genetica preimpianto (PGD) è una possibilità che la medicina riproduttiva mette a disposizione delle coppie che hanno il rischio di avere una gravidanza in cui è presente una malattia genetica conosciuta e che vogliono evitare di avere un (altro) figlio malato, un’interruzione di gravidanza o aborti ripetuti. La procedura è questa: lo spermatozoo fertilizza l’ovocita “in vitro” e dall’embrione prodotto, a 3 giorni dalla fertilizzazione, quando è allo stadio di 6-8 cellule, viene prelevata una cellula sulla quale viene indagata la malattia genetica in questione. Solo gli embrioni che risultano non affetti dalla malattia vengono trasferiti nell’utero della donna allo scopo di dare avvio ad una gravidanza.
La legislazione e le norme che riguardano la PGD variano da paese a paese (1): limitazioni molto forti nelle procedure e nell’accesso a PGD sono in vigore in Italia, Austria e Svizzera; restrizioni minori in Germania; regolamentazione più articolata e con meno vincoli in Francia, Spagna, Olanda e Inghilterra. Altre informazioni al riguardo si possono leggere su questo sito nella rubrica “Commenti di esperti” (Legge 40/2004) e nella rubrica “Documenti Informativi” (Diagnosi Genetica Preimpianto“), del 4/12/2004. La prima PGD è stata realizzata circa 15 anni fa: in questo arco di tempo le tecniche si sono perfezionate e le procedure per l’assistenza alle coppie hanno raggiunto maggior organizzazione e qualità. Questo articolo (2) riporta l’esperienza di un grande Centro di Parigi, dal Gennaio 2000 al Dicembre 2004. E’ una rassegna utile per dare una visione aggiornata di questo campo particolare della medicina e capire, leggendo tra i numeri, il comportamento delle coppie che pensano alla PGD come ad una possibile scelta e, in particolare, il rilievo, almeno in termini numerici, che la PGD ha assunto per le coppie che hanno figli FC.
Nei 4 anni presi in esame si sono rivolte al team del Centro parigino 780 coppie: di queste, il 56% aveva rischio di figli con malattia genetica “monogenica” (= dovuta ad un solo gene), il 44% rischio di figli con malattia dovuta ad alterazioni cromosomiche. C’è un primo screening delle coppie che si rivolgono al Centro: avviene per mezzo di un meeting settimanale in cui intervengono tutti i vari specialisti che concorrono alla realizzazione della PGD. Non hanno superato il primo screening 164 coppie che, raccolte e valutate le informazioni ricevute, hanno preferito ricorrere alla procreazione per vie naturali e usare la diagnosi prenatale in caso di gravidanza; altre 75 hanno rinunciato alla PGD dichiaratamente per la complessità della procedura e non hanno espresso intenzioni riguardo ad altre possibilità procreative; e infine 71 coppie sono state apertamente consigliate di considerare altre possibilità (donazione di gameti, adozioni e così via), perchè l’età della donna era troppo elevata (superiore a 40 anni) o per altre controindicazioni di natura medica (ad esempio una modesta riserva ovarica). Sono così rimaste 276 coppie (il 35% di quelle iniziali), che sono entrate nel programma PGD. Di queste l’hanno già realizzata interamente circa la metà (131), le altre l’hanno iniziata ma non conclusa oppure sono in attesa di iniziarla. Delle 131, 77 avevano rischio di malattia cromosomica e 56 di malattia genetica (34 per malattia genetica recessiva, 22 per malattia genetica dominante). E’ interessante notare che fra le coppie con malattia genetica recessiva la più comune indicazione è stata la FC (56% delle coppie), seguita dalla atrofia muscolare spinale e poi singole richieste per altre malattie molto più rare; mentre tra le malattie a trasmissione dominante il 95% delle coppie era a rischio di distrofia miotonica.
Alcuni aspetti procedurali sono nuovi: data la stretta relazione fra l’età della donna e la possibilità di successo della PGD (di questa relazione si danno ampie evidenze numeriche nell’articolo), il team del Centro ha adottato dal 2004 la politica di non accettare richieste di PGD da parte di donne con età maggiore di 36 anni. Per quanto riguarda poi i criteri adottati per decidere il numero di embrioni da trasferire in utero, si annoverano: la storia riproduttiva delle donna (figli malati, precedenti aborti, precedenti tentativi con PGD), l’età stessa della donna, la qualità degli embrioni. Seguendo questi criteri sono stati trasferiti in media 2 embrioni per donna. Si sono verificate gravidanze gemellari nel 23% dei casi. Il tasso di successo finale (“bambino in braccio da portare a casa” = “take-home baby”) è stato del 27% per coppia.
L’impressione che la pubblicazione trasmette, al di là dei numeri comunque interessanti, è quella di una procedura che viene affrontata da parte degli utenti (le coppie) e da parte dei sanitari con maggior attenzione che in passato sia agli aspetti psicosociali che agli aspetti tecnici. In linea con questa impressione è la conclusione, molto realistica e non di parte, come è invece talvolta quando gli autori sono troppo implicati e sbilanciati nel promuovere ciò che propongono: la PGD dà risultati incoraggianti, ma le coppie che vi accedono devono essere molto ben selezionate sul piano medico e molto ben informate e assistite nelle decisioni che debbono prendere (debbono avere “adeguata consulenza”), perché è una procedura complessa e perché la percentuale di successo è ancora relativamente bassa.
1) Renwick P, Mackie Ogilvie C “Preimplantation genetic diagnosis for monogenic diseases: overview and emerging issues” Expert Rev Mol Diagn 2007 ; 7(1) :33-43
2) Feyereisen E et all “Five years’ experience of preimplantation genetic diagnosis in the Parisian Center: outcome of the first 441 started cycles” Fertil Steril 2007; 87(1): 60-73